Iva non dovuta: presupposti e termini per il rimborso
Nel caso di specie la Corte di Cassazione con la sentenza n. 25013 del 22 agosto 2023, dopo un'ampia disamina della giurisprudenza unionale sul tema, ha affermato che in caso cessione di beni originariamente assoggettata ad Iva e poi esclusa con provvedimento definitivo dell'ufficio fiscale “il cedente ha diritto al rimborso, alla luce dei principi unionali di neutralità ed effettività, nei due anni dalla definitività del provvedimento, ai sensi del art. 30-ter, comma 2 DPR 633/72 non ostandovi l'impossibilità di adempiere all'obbligazione, prevista da detto comma, di restituzione al cessionario, purchè, in ragione di rettifica della detrazione dell'IVA ad opera di questi, non ne derivi pregiudizio per l'erario”.
Nel caso di specie la non debenza dell'Iva deriva dal fatto che la cessione di rimanenze di magazzino è stata assoggettata ad imposta di registro in misura proporzionale solo con provvedimento definitivo dell'ufficio fiscale che l'ha considerata quale operazione rientrante in una complessiva cessione di azienda.
A fronte di questa situazione la cedente ha presentato istanza di rimborso per l'Iva, invocando il secondo comma dell'art. 30 ter DPR 633/1972, e considerando quale dies a quo per la decadenza del termine biennale esclusivamente la data della definitività dell'atto impositivo, pur non avendo modo di dimostrare (oltre alla presentazione degli estratti dei registri Iva vendite e acquisti e alla dichiarazione integrativa della cessionaria) la restituzione dell'Iva al cessionario.
Infatti, in base a quanto risulta pacificamente acquisito dalla lettura della sentenza, il cedente non ha mai ricevuto l'Iva a titolo di rivalsa dal cessionario, in quanto a sua volta quest'ultimo ha presentato dichiarazione integrativa per la detrazione dell'Iva addebitatagli dal cedente a titolo di rivalsa.
Si pone dunque il problema, anche in considerazione della formalistica interpretazione proposta dall'ufficio fiscale e portata avanti fino al giudice di legittimità, di individuare l'ampiezza di quanto stabilito nel secondo comma dell'art. 30 ter DPR 633/72 anche in considerazione del rapporto con l'art. 21 D.Lgs. 546/92.
A tale proposito occorre ricordare che il citato art. 30 ter DPR 633/72 con riferimento all'Iva non dovuta stabilisce, nel primo comma, un termine generale di decadenza per l'azionabilità del diritto al rimborso pari a due anni dalla data del versamento ovvero se successivo dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione (con una disposizione sostanzialmente analoga all'art. 21, comma 2 D.Lgs. n. 546/1992); nel secondo comma, regolando una ipotesi specifica, stabilisce invece che se l'Iva non dovuta è conseguenza di un accertamento divenuto definitivo dell'ufficio fiscale, la domanda di restituzione può essere presentata dal cedente o prestatore entro il termine di due anni dall'avvenuta restituzione al cessionario o committente dell'importo pagato a titolo di rivalsa.
Nel caso di specie, pur trovandoci di fronte ad una ipotesi di Iva non dovuta per effetto di un accertamento divenuto definitivo in seguito ad un provvedimento impositivo, l'ufficio fiscale contesta che possa considerarsi quale dies a quo ai fini della decadenza del diritto al rimborso la data della definitività del provvedimento perché non vi sia stata alcuna restituzione da parte del cessionario in favore della cedente.
Tuttavia i giudici di legittimità, richiamando i principi di neutralità e di effettività dell'Iva, hanno evidenziato come l'interpretazione dell'ufficio che pretenderebbe di ricondurre l'intera fattispecie al comma 1 del citato articolo 30 ter, ricollegando la decadenza al termine del versamento, creerebbe un indebito arricchimento dell'Erario che beneficerebbe in relazione alla medesima fattispecie sia dell'imposta di registro versata in misura proporzionale che di un'Iva che lo stesso ufficio fiscale ha accertato non dovuta.
Definitività del provvedimento impositivo e conseguenze sui termini per il rimborso
La Corte di Cassazione, nell'affermare il principio di diritto secondo cui il cedente può presentare istanza di rimborso entro due anni dalla definitività del provvedimento, ha avuto modo di precisare ed analizzare le ragioni che consentono di distinguere l'ipotesi in discussione dai casi in cui l'indebito pagamento dell'Iva sia originario e non sopravvenuto e che hanno indotto la stessa Corte ad adottare soluzioni diverse da quella cui si è pervenuti nel caso di specie.
Si tratta specificamente dei casi in cui il versamento Iva era indebito fin dall'origine (cfr. sent. Cass. n. 2677/2022) in quanto effettuato a fronte di una cessione di azienda e in cui la Corte ha affermato che il termine biennale di decadenza per la richiesta di rimborso decorre dalla data del versamento (cfr. sent. n. 19748/2016).
Nel caso di specie la non debenza dell'Iva è, invece frutto di un accertamento divenuto definitivo e divenuto tale (nel caso di specie) in data 14.07.2017; è infatti solo in tale data che si è determinato l'assoggettamento delle cessioni, già effettuate con Iva, ad imposta di registro ex art. 20 DPR n. 131/1986 con conseguente non debenza dell'Iva in virtù di un presupposto intervenuto successivamente per effetto di un potere esercitato dall'Amministrazione finanziaria e che esula completamente dalla sfera di disponibilità del contribuente.
Subordinare però l'operatività di detta norma come pretenderebbe formalisticamente l'ufficio fiscale all'ulteriore elemento della restituzione di una somma a titolo di rivalsa mai corrisposta, significherebbe, in concreto, al di là dell'astratta enunciazione del diritto, impedirne "tout court" l'esercizio.
Come correttamente rilevato dalla Corte riconoscere il diritto al rimborso - come pretenderebbe la difesa erariale - solo entro un biennio dal pagamento dell'IVA, nonostante che all'Amministrazione sia concesso un termine più lungo per procedere all'accertamento, significherebbe, in concreto, condizionare l'esercizio di detto diritto alle contingenti tempistiche, e finanche al libito, dell'Amministrazione, in spregio della realizzabilità in sè del credito in capo a chi, "ex post", dovesse essere riconosciuto, viepiù definitivamente, averne maturato i presupposti.
Dopo aver evidenziato tale anomalia e i rischi che ne conseguirebbero la Corte ragionevolmente conclude che la mancata (perché impossibile) dimostrazione della restituzione dell'imposta non dovuta al cessionario non determina l'inapplicabilità del secondo comma come pretenderebbe invece l'ufficio fiscale.
Fonte: Cass. 22 agosto 2023 n. 25013