In materia di IVA all'importazione, in caso di indebito utilizzo del “plafond” è ammissibile il ravvedimento operoso di cui all'art. 13 D.Lgs. 472/97, ma devono essere corrisposte anche le sanzioni, perché la violazione non ha carattere meramente formale dal momento che incide sul versamento del tributo, e gli interessi, poiché l'IVA all'importazione rientra tra i tributi che vanno corrisposti in occasione delle operazioni doganali e non in un momento successivo.
Il principio è stato espresso dalla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione nella sentenza n. 25318 dello scorso 28 agosto con cui, in accoglimento del ricorso presentato dall'Agenzia delle Dogane, è stata annullata la precedente decisione di merito.
Nel caso di specie la società contribuente impugnava l'avviso di rettifica dell'accertamento per acquisto di beni di provenienza extra comunitaria ai sensi dell'art.8 c. 2 DPR 633/72. Le veniva contestato di aver proceduto senza addebito di imposta sulla base di dichiarazioni di intento ritenute false, non avendo effettuato alcuna esportazione o cessione infracomunitaria negli anni 2013 e 2014 e, quindi, in assenza di plafond IVA, come documentato da processo verbale di constatazione. La contribuente deduceva di operare sul mercato cinese, di aver presentato istanza per essere riconosciuta come esportatore abituale e, comunque, di aver regolarizzato la propria posizione IVA attraverso il ravvedimento operoso, con conseguente assenza di danno alcuno per l'erario. Tale prospettazione difensiva veniva disattesa dal giudice di primo grado, ma condivisa dal giudice di appello.
Presentato ricorso dinanzi alla Cassazione, le Dogane censuravano la sentenza di secondo grado per aver la CTR mancato di riconoscere l'applicabilità della sanzione al tributo evaso, dal momento che l'IVA non era stata pagata dalla contribuente, dichiaratasi falsamente esportatrice abituale e,
dunque, non sussistevano i presupposti per il ravvedimento operoso nella fattispecie, in presenza di vantaggi fiscali indebitamente ottenuti con conseguente non utile invocabilità del principio di neutralità fiscale. Il motivo di ricorso è stato accolto dalla Cassazione che ha chiarito come il meccanismo del c.d. "plafond" (art. 2, c. 2 , L 28/97), costituisce una modalità di assolvimento dell'Iva per le operazioni imponibili poste in essere dall'esportatore abituale, in quanto si sostanzia nella compensazione del relativo debito con il credito maturato sulle cessioni all'esportazione, od operazioni a esse assimilate, registrate nell'anno solare precedente, per un ammontare superiore al 10% del complessivo volume di affari (ex artt. 8, c. 1, lett. a) e b), e 8-bis, DPR 633/72). Ciò consente al fornitore di effettuare la rivalsa nei suoi confronti attraverso lo scomputo del credito dell'esportatore e non attraverso la controprestazione monetaria; ne consegue che la non imponibilità degli acquisti effettuati dall'esportatore abituale discende direttamente dalle cessioni all'esportazione e dalle operazioni ad esse assimilate dal medesimo compiute, che ne costituiscono al contempo presupposto e limite quantitativo monetario utilizzabile nell'anno successivo.
Inoltre, con riferimento alle cessioni all'esportazione, dallo "status" di esportatore abituale, deriva il riconoscimento della sospensione di imposta nei limiti del "plafond" disponibile così maturato, e siffatto “status” è acquisito dall'impresa che esporta o effettua vendite intracomunitarie di beni e servizi per almeno il 10%, avuto riguardo alle operazioni poste in essere nell'anno precedente.
Nella fattispecie tale fatto, per la Cassazione, è pacificamente escluso in capo alla contribuente cui, conseguentemente, per il periodo di imposta rilevante non può essere riconosciuto lo “status” di esportatore abituale.
Fonte: Cass. 28 agosto 2023 n. 25318