In caso di infortunio il lavoratore deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno.
Il principio, espresso dalla giurisprudenza di legittimità nel 2008, è stato ripreso dalla Cassazione nella recente sentenza n. 25217 dello scorso 24 agosto, con cui è stata annullata la precedente pronuncia di merito che non rispettava la descritta ripartizione dell'onere della prova.
I fatti di causa riguardano l'infortunio occorso a una domestica mentre rimuoveva delle tende utilizzando uno scala. Di solito l'operazione veniva effettuata con l'ausilio del datore di lavoro ma, nel caso di specie, la lavoratrice aveva deciso di occuparsene da sola, mentre il datore si era assentato temporaneamente per alcune commissioni. Secondo la Corte di appello mancava la prova che fosse stato il datore ad impartire alla domestica l'ordine di rimuovere le tende pur in sua assenza e che la scala usata non possedesse una base stabile o antiscivolamento, né, per i giudici di merito, la presenza di un tappeto sul quale lo scaleo sarebbe scivolato poteva essere addebitabile al datore di lavoro assente, potendo essere facilmente rimosso dalla lavoratrice. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per Cassazione la domestica lamentando che doveva essere il datore di lavoro a dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, dal momento che ella aveva subito l'infortunio lavorando e senza aver messo in atto alcun comportamento abnorme.
La pronuncia della Cassazione richiama l'art. 1218 c.c. secondo cui è il debitore - e, quindi, nel rapporto di lavoro, il datore - a dover provare che l'inadempimento derivi da causa a lui non imputabile. Come evidenziato dagli Ermellini, comunemente si dice che la colpa del debitore si presume fino a prova contraria o più propriamente che esista un'inversione dell'onere probatorio, nel senso che il debitore è ammesso a provare l'assenza di colpa, pur sempre elemento essenziale della sua responsabilità contrattuale. Nel rapporto di lavoro, a fronte di un infortunio o di una malattia professionale, questo assunto si traduce nella facoltà per l'attore di invocare la responsabilità contrattuale del datore provando il rapporto di lavoro, l'attività svolta, l'evento dannoso e le conseguenze che ne sono derivate. Non spetta invece al lavoratore provare la colpa del datore danneggiante, né individuare le regole violate, né le misure cautelari che avrebbero dovuto essere adottate per evitare l'evento dannoso. La responsabilità del datore discende, dunque, pur sempre dalla violazione di regole a contenuto cautelare (nessuna responsabilità senza colpa); e non si potrà automaticamente desumere l'inadeguatezza delle misure di protezione adottate per il solo fatto che si sia verificato il danno. Certamente, il verificarsi dell'infortunio o della malattia non implica necessariamente la colpa (la violazione del TU81/2008 o dell'art. 2087 c.c.), ma semplicemente lo fa presumere; di tale violazione il datore non risponde solo se prova di aver adempiuto, ossia di aver adottato tutte le misure prescritte.
Per la Cassazione, non basta un danno alla salute (un infortunio o una malattia) per affermare la responsabilità del datore di lavoro sostenendo che non abbia fatto il possibile per evitare il danno; né è sufficiente la costatazione del nesso di causalità tra il lavoro e la lesione. Occorre piuttosto valutare sempre la condotta tenuta dal datore di lavoro per evitare l'evento; solo che questa valutazione - ancorché si discuta di danni differenziali - deve essere introdotta nel processo civile dal datore medesimo; il quale dovrà allegare e provare di aver rispettato le cautele imposte dalla legge (valutazione dei rischi, apprestamento dei mezzi, informazione, vigilanza, ecc.) ovvero quelle suggerite dalla tecnica o dall'esperienza alla luce della concreta situazione di fatto (ex
art. 2087 c.c.) e a maggior ragione quando l'esecuzione del contratto di lavoro sottopone il lavoratore ad un particolare pericolo insito nella specifica mansione, com'è quella da svolgersi in altezza.
Rispetto a quando affermato dalla Suprema Corte, la Corte d'appello ha capovolto l'onere della prova della colpa, dal momento che si trattava di requisiti riferiti al comportamento che il datore di lavoro sarebbe stato tenuto ad adottare per evitare l'evento (ovvero alla assenza della sua colpa, intesa quale obbligo di diligenza nella predisposizione di misure idonee a prevenire il danno), e che egli era pertanto tenuto ad allegare e provare nel giudizio;
In caso di infortunio il lavoratore deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno.
Il principio, espresso dalla giurisprudenza di legittimità nel 2008, è stato ripreso dalla Cassazione nella recente sentenza n. 25217 dello scorso 24 agosto, con cui è stata annullata la precedente pronuncia di merito che non rispettava la descritta ripartizione dell'onere della prova.
I fatti di causa riguardano l'infortunio occorso a una domestica mentre rimuoveva delle tende utilizzando uno scala. Di solito l'operazione veniva effettuata con l'ausilio del datore di lavoro ma, nel caso di specie, la lavoratrice aveva deciso di occuparsene da sola, mentre il datore si era assentato temporaneamente per alcune commissioni. Secondo la Corte di appello mancava la prova che fosse stato il datore ad impartire alla domestica l'ordine di rimuovere le tende pur in sua assenza e che la scala usata non possedesse una base stabile o antiscivolamento, né, per i giudici di merito, la presenza di un tappeto sul quale lo scaleo sarebbe scivolato poteva essere addebitabile al datore di lavoro assente, potendo essere facilmente rimosso dalla lavoratrice. Avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per Cassazione la domestica lamentando che doveva essere il datore di lavoro a dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, dal momento che ella aveva subito l'infortunio lavorando e senza aver messo in atto alcun comportamento abnorme.
La pronuncia della Cassazione richiama l'art. 1218 c.c. secondo cui è il debitore - e, quindi, nel rapporto di lavoro, il datore - a dover provare che l'inadempimento derivi da causa a lui non imputabile. Come evidenziato dagli Ermellini, comunemente si dice che la colpa del debitore si presume fino a prova contraria o più propriamente che esista un'inversione dell'onere probatorio, nel senso che il debitore è ammesso a provare l'assenza di colpa, pur sempre elemento essenziale della sua responsabilità contrattuale. Nel rapporto di lavoro, a fronte di un infortunio o di una malattia professionale, questo assunto si traduce nella facoltà per l'attore di invocare la responsabilità contrattuale del datore provando il rapporto di lavoro, l'attività svolta, l'evento dannoso e le conseguenze che ne sono derivate. Non spetta invece al lavoratore provare la colpa del datore danneggiante, né individuare le regole violate, né le misure cautelari che avrebbero dovuto essere adottate per evitare l'evento dannoso. La responsabilità del datore discende, dunque, pur sempre dalla violazione di regole a contenuto cautelare (nessuna responsabilità senza colpa); e non si potrà automaticamente desumere l'inadeguatezza delle misure di protezione adottate per il solo fatto che si sia verificato il danno. Certamente, il verificarsi dell'infortunio o della malattia non implica necessariamente la colpa (la violazione del TU81/2008 o dell'art. 2087 c.c.), ma semplicemente lo fa presumere; di tale violazione il datore non risponde solo se prova di aver adempiuto, ossia di aver adottato tutte le misure prescritte.
Per la Cassazione, non basta un danno alla salute (un infortunio o una malattia) per affermare la responsabilità del datore di lavoro sostenendo che non abbia fatto il possibile per evitare il danno; né è sufficiente la costatazione del nesso di causalità tra il lavoro e la lesione. Occorre piuttosto valutare sempre la condotta tenuta dal datore di lavoro per evitare l'evento; solo che questa valutazione - ancorché si discuta di danni differenziali - deve essere introdotta nel processo civile dal datore medesimo; il quale dovrà allegare e provare di aver rispettato le cautele imposte dalla legge (valutazione dei rischi, apprestamento dei mezzi, informazione, vigilanza, ecc.) ovvero quelle suggerite dalla tecnica o dall'esperienza alla luce della concreta situazione di fatto (ex
art. 2087 c.c.) e a maggior ragione quando l'esecuzione del contratto di lavoro sottopone il lavoratore ad un particolare pericolo insito nella specifica mansione, com'è quella da svolgersi in altezza.
Rispetto a quando affermato dalla Suprema Corte, la Corte d'appello ha capovolto l'onere della prova della colpa, dal momento che si trattava di requisiti riferiti al comportamento che il datore di lavoro sarebbe stato tenuto ad adottare per evitare l'evento (ovvero alla assenza della sua colpa, intesa quale obbligo di diligenza nella predisposizione di misure idonee a prevenire il danno), e che egli era pertanto tenuto ad allegare e provare nel giudizio; dimostrando quindi, da una parte, di aver ordinato alla ricorrente di non provvedere a quella mansione in sua assenza e nelle circostanze date (con un tappeto sotto la scala); e dall'altra parte, di averla dotata di una scala idonea in quanto rispondente a tutte le prescrizioni di sicurezza (sia per le sue caratteristiche intrinseche, sia per il suo posizionamento e le modalità di utilizzo nell'ambiente dato).
Fonte: Cass. 24 agosto 2023 n. 25217