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martedì 29/08/2023 • 06:00

Fisco Crediti d’imposta

Bonus indebitamente dichiarati: accertamenti e controlli

L’indebita dichiarazione di un credito di imposta genera una obbligazione debitoria. Tale prassi, corretta sotto il profilo contabile e giustificata da esigenze di semplificazione, non sembra conforme a principi di diritto. Sarebbe auspicabile un riesame nell’ambito della riforma fiscale.

di Alessandro De Stefano - Avvocato e Professore di diritto tributario presso l’Università Europea di Roma

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  • Tempo di lettura 8 min.
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Nel sistema tributario è pacificamente ammesso che l'indebita dichiarazione di un credito di imposta, o di un credito di importo superiore a quello effettivamente spettante, genera l'obbligo di pagare una somma pari al credito indebitamente dichiarato. Si tratta di una regola non scritta, che risulta tuttavia comunemente applicata nella prassi e normalmente accettata (talvolta in modo inconsapevole) dai contribuenti.

L'esperienza dimostra che gli avvisi di irregolarità redatti a seguito di controllo automatizzato ai sensi dell'art. 36 bis, c. 3, DPR 600/73, che rilevano l'avvenuta dichiarazione di un maggior credito, recano l'invio a versare la somma corrispondente, maggiorata di interessi e di sanzioni.

Avvisi di accertamento

Analogamente, gli avvisi di accertamento, che rivelano l'esistenza di un credito non spettante a causa dell'omessa dichiarazione di componenti positivi o della indebita deduzione di componenti negativi, liquidano l'imposta dovuta in base al credito indebitamente esposto in dichiarazione, con i relativi accessori. Questa prassi risponde a corretti calcoli matematici ed a criteri di semplificazione del rapporto d'imposta.

L'addebito di una somma di importo pari al maggior credito dichiarato consente di far “quadrare” i conti e di legittimare in via empirica la dichiarazione erronea, evitando complesse verifiche degli effetti che l'indebita dichiarazione del credito abbia prodotto in periodi successivi. In buona sostanza, il pagamento intimato, con sanzioni ed interessi, tende a riequilibrare il rapporto alterato, consentendo la ritenzione del credito illegittimo e facendo salvi i molteplici sviluppi che possono essere derivati nel futuro dall'erronea dichiarazione (come operazioni di rimborso, utilizzazioni in compensazione mediante mod. f/24, riporto del credito nella dichiarazione del periodo successivo).

Questa prassi sembra favorita dal fatto che gli accertamenti sono operati spesso in prossimità della scadenza dei termini, e perciò a distanza di vari anni dall'indebita dichiarazione, e che pertanto l'indagine sulle future sorti del credito e la rettifica degli atti consequenziali potrebbe risultare particolarmente onerosa. Questo modus operandi può produrre anche effetti favorevoli per il contribuente perché, esaurendo le contestazioni dell'Ufficio, lo pone al riparo dalle più gravose conseguenze, anche di ordine penale, che potrebbero derivare da indagini sulle indebite compensazioni eventualmente effettuate in tempi successivi; e ciò a differenza di quanto avviene quando l'inesistenza o la non spettanza del credito siano contestate mediante un atto di recupero che, facendo riferimento all'utilizzazione del credito piuttosto che alla sua dichiarazione, fa emergere direttamente le violazioni amministrative e penali sanzionate dagli artt. 13, c. 4 e 5, D.Lgs. 471/97 e 10 quater, D.Lgs. 74/2000.

Non sembra tuttavia che tale sistema corrisponda a corretti principi di diritto. Secondo i canoni civilistici, che presiedono al rapporto giuridico di imposta, la dichiarazione di un credito non spettante costituisce un atto giuridico viziato da errore, e perciò annullabile ed inidoneo a produrre effetti, e non può essere considerato come fonte di una contrapposta obbligazione, idonea a consolidare il credito inesistente ed a riequilibrare i termini economici del rapporto. Secondo corretti principi di diritto, pertanto, l'Amministrazione che rilevi l'inesistenza di un credito di imposta dovrebbe limitarsi a disconoscerlo, salvo ad accertare e sanzionare gli effetti consequenziali che esso abbia eventualmente prodotto.

Osservazioni

In verità, l'indebita dichiarazione di un credito costituisce di per sé una violazione di carattere formale, che non produce danno fino a quando il credito non sia stato rimborsato (producendo così un indebito arricchimento) o non sia stato indebitamente compensato (determinando così l'omesso versamento dei tributi erroneamente compensati); da ciò consegue che – fatte salve le sanzioni eventualmente applicabili per l'indebita dichiarazione, che abbia effettivamente prodotto effetti dannosi - la pretesa impositiva dell'Amministrazione non dovrebbe rivolgersi contro l'erronea dichiarazione del credito, ma dovrebbe riguardare la ripetizione delle somme indebitamente rimborsate o il pagamento dei tributi indebitamente compensati, con i conseguenti effetti sulla determinazione degli accessori.

La più grave anomalia si registra nel caso di controlli automatizzati, allorquando il credito non sia stato mai rimborsato, né sia stato mai utilizzato in compensazione, ma sia stato semplicemente riportato nelle dichiarazioni degli anni successivi. In tali casi, che interessano potenzialmente l'intera platea dei contribuenti, la pretesa di pagamento, con interessi e sanzioni, appare priva di qualunque fondamento sul piano logico e giuridico; tuttavia, essa si traduce nella iscrizione a ruolo delle somme pretese e nella conseguente formazione di un titolo esecutivo, nel caso di mancato versamento spontaneo nel termine di 30 giorni, in virtù dei programmi informativi a disposizione dell'Agenzia.

Questa prassi non appare legittima. Dal combinato disposto dell'art. 36 bis DPR 600/73 e dell'art. 14 DPR 602/73, si evince infatti che attraverso il controllo automatizzato l'Amministrazione ha facoltà di correggere qualunque tipo di errore di carattere contabile contenuto nella dichiarazione, ma può iscrivere a ruolo non tutti gli importi indicati erroneamente, ma solo le imposte e le ritenute alla fonte che risultino dovute a seguito della rettifica dei dati e del compimento delle relative operazioni di liquidazione.

Ciò significa che si potranno rettificare i calcoli e ridurre e/o eliminare i crediti indebitamente esposti, ma non si potranno trasformare ipso facto in debiti esigibili coattivamente i crediti che siano stati indebitamente dichiarati, senza contribuire alla determinazione e/o al versamento del tributo. L'insorgenza di un debito del contribuente verso l'erario potrà avvenire solo in via eventuale ed in tempi futuri, per effetto della successiva utilizzazione del credito indebitamente esposto in compensazione con un contrapposto debito, da accertare e recuperare con strumenti e metodi totalmente diversi. Da ciò consegue che l'iscrizione a ruolo, oltre ad essere priva di presupposti normativi, risulta contraria anche alle regole procedimentali concretamente applicabili per il recupero delle imposte eventualmente dovute.

Tali principi sono stati già affermati dalla giurisprudenza della Cassazione.

Con sentenza 22 febbraio 2013 n. 4539 la S. Corte ha infatti affermato che “Il potere attribuito agli Uffici finanziari, in sede di liquidazione delle imposte e dei rimborsi dovuti in base alle dichiarazioni, è limitato alla correzione degli errori materiali e di calcolo commessi dai contribuenti o dai sostituti d'imposta […]. Nel caso di specie, tuttavia, non trattasi di omesso versamento finalizzato al recupero di un'imposta non versata, ma del disconoscimento di un credito esposto nella dichiarazione dei redditi; appare pertanto illegittima l'automatica trasformazione di una voce di credito in una voce di debito, dovendo, in tal caso l'ufficio disconoscere il diritto a fruire del credito residuo senza poter procedere alla richiesta di pagamento anticipato dell'imposta nell'eventualità che questa potesse essere utilizzata in futuro”.

Tali principi sono stati riaffermati dalla ordinanza n. 20643/2021, secondo cui: “fermo restando il potere dell'amministrazione finanziaria di controllare la correttezza delle dichiarazioni dei redditi presentate e di correggere eventuali errori materiali o di calcolo, si pone la questione di stabilire quando, a seguito del suddetto controllo, possa essere emessa una cartella di pagamento ai fini del recupero dell'imposta non dovuta. A tal proposito, va precisato che l'emissione della cartella di pagamento è legittima solo laddove, a seguito della verifica compiuta in sede di controllo automatizzato, l'amministrazione finanziaria accerti che, a causa di errori materiali o di calcolo, il contribuente ha illegittimamente utilizzato un credito di imposta sicché tale illegittimo utilizzo si traduce in un debito del contribuente nei confronti dell'amministrazione finanziaria che legittima la pretesa al recupero dell'importo mediante la notifica della cartella di pagamento. Diversamente, nel caso di mancato utilizzo del credito di imposta, ove si sia accertato che lo stesso non era stato correttamente esposto, l'amministrazione finanziaria può solo procedere alla rettifica dell'errore materiale o di calcolo, ma non può emettere una cartella di pagamento ai fini del recupero di un credito di imposta che, in quanto non utilizzato, non si è tradotto in un debito del contribuente nei confronti dell'amministrazione finanziaria” (conforme, da ultimo, Cass. 28 giugno 2022 n. 20626).

Anche questi temi potrebbero costituire oggetto di riflessione nell'ambito della prevista fiscale, qualora il legislatore legato rinvenga elementi utili al riguardo nella legge delega.

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