Con la pronuncia n. 23425 del 1° agosto 2023 la Suprema Corte ci consegna una interessante spunto di riflessione in tema di licenziamento per giusta causa, con particolare riferimento alla tematica della valutazione di proporzionalità e della interpretazione estensiva delle clausole di fonte pattizia.
Il casus belli trae origine dalla condotta di un lavoratore, il quale, uscendo dall'azienda a bordo di un mezzo datoriale, si era recato in una strada attigua per prelevare, dal bagagliaio di un'auto in sosta, una tanica contenente tracce di gasolio e l'aveva indebitamente collocata all'interno dell'azienda in mezzo ad altri fusti contenenti detersivi, con il probabile fine di scambiarla con alcune simil taniche di carburante presenti nello stesso deposito.
Licenziato in tronco, il dipendente aveva immediatamente impugnato la comminata sanzione, ottenendone la declaratoria di illegittimità in sede di merito, se pur con una diversificazione sostanziale in termini di tutela.
Ed invero, mentre in primo grado il Tribunale di riferimento aveva ritenuto di applicare la tutela di cui all'art. 18, c. 4, Legge 300/70, in sede di gravame la Corte d'appello aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento ed aveva condannato la stessa società al pagamento di un'indennità risarcitoria omnicomprensiva, commisurata a 14 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori di legge.
A fondamento dell'assunta decisione di riforma, i Giudici di merito avevano, in particolare, evidenziato come il lavoratore non fosse incorso in una fattispecie di furto, ma avesse invece compiuto un insieme di atti semplicemente preparatori di quel tipo di reato contro il patrimonio, arrestandosi ad una soglia tale da non potersi scorgere nella vicenda neanche i canonici estremi del tentativo, ma incidente, nondimeno, sulla perfetta integrità dell'elemento fiduciario posto a fondamento della relazione lavorativa, pur senza comportarne l'integrale compromissione.
Il lavoratore decideva di ricorrere in Cassazione, denunciando la violazione e falsa applicazione dell'art. 18, c. 5, anziché del c. 4, Legge 300/70 e la Suprema Corte, accogliendo il motivo di ricorso, cassava la sentenza impugnata con rinvio alla stessa Corte d'appello in diversa composizione, affinché procedesse alla verifica omessa circa la riconducibilità dell'addebito ad ipotesi punite con sanzioni conservative e contemplate dal regio decreto applicabile al caso di specie e richiamato dalle parti.
Gli Ermellini, infatti, avevano osservato come la Corte d'appello, accertata la sussistenza della condotta contestata ed esclusa la giusta causa di licenziamento per la sproporzione della sanzione espulsiva (non integrando il comportamento gli estremi del furto o del tentativo di furto, puniti con la destituzione), avesse omesso di valutare la riconducibilità della condotta accertata ad ipotesi punite con sanzione conservativa, adducendo la mancata allegazione da parte del lavoratore circa l'esistenza di specifica sanzione conservativa prevista dalla contrattazione collettiva.
Tale valutazione, tuttavia, doveva ritenersi errata, dal momento che, nella vicenda in esame, la valutazione di proporzionalità attraverso il parametro costituito delle previsioni del contratto collettivo non abbisognasse di alcuna specifica allegazione, in quanto il contratto collettivo degli autoferrotranvieri (recepito dal RD 148/31) risultava applicabile ratione temporis e, quindi, conoscibile dal giudice senza necessità di collaborazione delle parti, in base al principio iura novit curia.
Retrocessa, così, la vicenda alla Corte d'appello, i Giudici del merito, in sede di rinvio, provvedevano ad operare il raffronto valutativo con la casistica del RD 148/31 e, non rinvenendo alcuna sanzione conservativa cui poter sussumere la condotta tenuta dal lavoratore, ribadivano l'applicabilità, al caso di specie, della tutela di cui al comma 5 dell'art. 18 Legge 300/70.
Il lavoratore decideva, nondimeno, di sottoporre nuovamente la questione al vaglio della Suprema Corte, lamentando, da un lato, la violazione dell'art. 18, c. 4, Legge 300/70 per omessa interpretazione estensiva delle clausole della contrattazione collettiva e deducendo, dall'altro, il vizio di assenza di motivazione per la quantificazione dell'indennità risarcitoria.
La soluzione della Suprema Corte
Il massimo organo della Nomofilachia, nel dirimere la vicenda posta al suo vaglio, prende le mosse dalla declaratoria di infondatezza della prima censura avanzata dal ricorrente.
Spiega, invero, la Suprema Corte come sia certamente valido il principio di diritto per cui in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall'art. 18 commi 4 e 5 della legge n. 300/70 (come novellata dalla L. 92/2012), è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l'illecito con sanzione conservativa, anche laddove tale previsione sia espressa attraverso clausole generali o elastiche.
Tale operazione di interpretazione non trasmoda, infatti, nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell'attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo.
L'impugnata sentenza, tuttavia, si sottrae ad ogni censura rispetto a tale principio di diritto, in quanto la Corte distrettuale aveva, in sede di rinvio, dato estesamente conto delle previsioni del RD 148/31 e della ritenuta impossibilità di sussumere le connotazioni pratiche del fatto in alcuno dei casi considerati dalle norme degli articoli di tale RD.
Ed invero, quanto alla prima ipotesi invocata dal ricorrente e relativa alla previsione di cui all'art. 42, n. 10 (che disciplina il caso di “volontario inadempimento dei doveri di ufficio o per negligenza, la quale abbia apportato danni al servizio o agli interessi dell'azienda”), rileverebbe in via ostativa: in primo luogo, il fatto per cui al lavoratore non fosse stata affatto addebitata una condotta negligente, vale a dire, di natura colposa; in secondo luogo, il fatto per cui la condotta contestata costituisse “un grave inadempimento degli obblighi di correttezza” e non di specifici “doveri di ufficio”, sicché l'estensione interpretativa invocata dal lavoratore non poteva validamente operare per l'ipotesi in esame.
Medesime considerazioni per la previsione di cui all'ipotesi di cui all'art. 42, n. 16, RD 148/31 (che disciplina le “mancanze da cui siano derivate irregolarità nell'esercizio o da cui avrebbe potuto derivare danno alla sicurezza dell'esercizio”) siccome riguardanti una condotta che appare, all'evidenza, aliena da ciò che fu contestato e poi ritenuto provato a carico del lavoratore.
Risulta, invece, fondato il secondo motivo di ricorso per Cassazione, avendo effettivamente omesso, la Corte distrettuale, qualsivoglia motivazione in merito all'onere di specifica illustrazione degli indici da considerare ai fini della quantificazione dell'indennità risarcitoria (con particolare riferimento all'anzianità del lavoratore, al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'attività economica, al comportamento ed alle condizioni delle parti), in violazione di quanto dal comma 5 dell'art. 18 Legge 300/70.
Pertanto, rigettato il primo motivo di ricorso e dichiarato assorbito il terzo, la Suprema Corte ha disposto la cassazione della sentenza per l'accoglimento del secondo motivo di ricorso, con rinvio alla Corte territoriale, la quale, in differente composizione, ferma restando la già acclarata tutela indennitaria ex art. 18, c. 5, Legge 300/1970 novellato, dovrà rivedere la quantificazione dell'indennità risarcitoria omnicomprensiva da accordare al lavoratore, specificamente motivandola in relazione agli indici in tale norma riportati.
Fonte: Cass. 1 agosto 2023 n. 23425