venerdì 21/07/2023 • 06:00
La disciplina di cui al D.Lgs. 24/2023 ha introdotto un impianto normativo che prevede diverse tutele per i soggetti che segnalano illeciti e, più in generale, violazioni di norme nazionali o dell'UE (whistleblowers). Tra queste tutele vi è l'inversione dell'onere della prova per la dimostrazione dell'atto illecito e del danno subito.
A decorrere dal 15 luglio 2023 diviene efficace la normativa di cui al D.Lgs. 24/2023 con cui l'Italia ha dato, anche se tardivamente, attuazione alla Direttiva 2019/1937, afferente alla protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell'Unione Europea. Per certi aspetti la normativa di attuazione è più estesa rispetto a quanto imposto dalla Direttiva anche in ragione del fatto che il legislatore italiano sembra essersi posto l'obiettivo di disciplinare in maniera unitaria il fenomeno del “whistleblowing” andando, quindi, anche a sostituire e condensare le normative nazionali già vigenti in materia in un'unica fonte. In particolare, si registrano novità significative rispetto ai soggetti tutelati, ai soggetti obbligati a porre in essere misure interne a tutela dei whistleblowers, alle misure organizzative ed agli strumenti di tutela. Tra le novità relative a tali strumenti, appare di particolare interesse quella contenuta nell'art. 17, c. 2, D.Lgs. 24/2023 che dispone: “Nell'ambito di procedimenti giudiziari o amministrativi o comunque di controversie stragiudiziali aventi ad oggetto l'accertamento dei comportamenti, atti o omissioni vietati ai sensi del presente articolo nei confronti delle persone di cui all'articolo 3, commi 1, 2, 3 e 4, si presume che gli stessi siano stati posti in essere a causa della segnalazione, della divulgazione pubblica o della denuncia all'autorità giudiziaria o contabile. L'onere di provare che tali condotte o atti sono motivati da ragioni estranee alla segnalazione, alla divulgazione pubblica o alla denuncia è a carico di colui che li ha posti in essere.”. In sostanza il legislatore ha voluto presumere che una particolare condotta nei confronti del segnalante (tra quelle espressamente previste dalla norma) abbia natura ritorsiva rispetto all'avvenuta segnalazione da parte del segnalante medesimo. L'ambito soggettivo in cui opera l'inversione dell'onere della prova La normativa del D.Lgs. 24/2023 ha introdotto all'art. 3 un'ampia platea di soggetti destinatari delle tutele previste che può essere circoscritta a due macro categorie: i soggetti segnalanti e gli altri soggetti. Nel caso dell'inversione dell'onere della prova giudiziale si applica soltanto in favore delle persone di cui ai commi 1, 2, 3 e 4 dell'art. 3, D.lgs. 24/2023 e cioè: tra cui i lavoratori subordinati, i lavoratori autonomi, gli azionisti e le persone con funzioni di amministrazione, direzione, controllo, vigilanza o rappresentanza (anche qualora tali funzioni siano esercitate in via di mero fatto). Rispetto a tali soggetti vale inoltre la disposizione di cui al comma 3 del citato art. 17, secondo cui se gli stessi, in caso di domanda risarcitoria presentata all'autorità giudiziaria, dimostrino di aver effettuato una segnalazione, una divulgazione pubblica o una denuncia e di aver subìto un danno, anche in questo caso opera una presunzione, nel senso che si presume, salvo prova contraria, che il danno sia conseguenza della segnalazione, della divulgazione pubblica o della denuncia. L'inversione dell'onere della prova opera nei vari ambiti dove possono essere trattate le controversie. Nell'ambito del “procedimento giudiziario”, come noto la prova del danno, da un punto di vista processuale, esige normalmente che si dimostrino: la riconducibilità della condotta all'agente (ad es. datore di lavoro che adotta un provvedimento disciplinare o che esercita lo ius variandi configurando un demansionamento); “l'elemento soggettivo e quindi dell'intento ritorsivo/persecutorio” sotteso alla condotta; “l'evento lesivo” quindi il pregiudizio, che può avere diversa natura; il “nesso eziologico” tra la condotta illecita e il pregiudizio subito dal soggetto che agisce per il risarcimento. Invece, in virtù del meccanismo di inversione dell'onere della prova in commento, è sufficiente che il segnalante provi in giudizio la mera ed oggettiva circostanza di aver effettuato una segnalazione in conformità alla normativa e di aver subito un comportamento ritenuto ritorsivo senza quindi dover dimostrare il nesso causale tra le due circostanze. Per superare questa presunzione spetterà al soggetto che oggettivamente ha posto in essere la condotta (che può essere anche omissiva) l'onere di provare che tale comportamento non è in alcun modo collegato alla segnalazione. Si tratta, di fatto, di una presunzione di responsabilità, e la prova contraria dovrà essere fornita attraverso i normali strumenti probatori previsti dalla legge. Laddove, al termine del giudizio, la condotta dovesse essere qualificata come ritorsiva rispetto alla segnalazione effettuata, la conseguenza sarà la nullità dell'atto con le relative ricadute a seconda della tipologia di atto che configura la ritorsione. Ad esempio, per quanto riguarda l'ipotesi del licenziamento accertato come ritorsivo, alla dichiarazione di nullità seguirà evidentemente la reintegra del lavoratore segnalante nel posto di lavoro. Sul punto, infatti, il legislatore, con l'art. 24 D.Lgs. 24/2023, ha novellato la n l'art. 4 legge 604/66 che adesso dice: “Il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza a un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali o conseguente all'esercizio di un diritto ovvero alla segnalazione, alla denuncia all'autorità giudiziaria o contabile o alla divulgazione pubblica effettuate ai sensi del D.Lgs. 24/2023 è nullo.” In sostanza, viene superato quel principio, seppur non molto seguito dalla giurisprudenza per il quale “l'onere della prova in ordine al nesso di derivazione tra segnalazione e misura pregiudizievole grava interamente sulla parte che lo allega, alla stregua della regola generale di riparto dell'onere probatorio ex art. 2697 c.c., non derogata dalla disposizione speciale in esame” (Corte d'App. Milano, 3 marzo 2023, n. 252). Nella vita aziendale, ciò poteva comportare una condizione del whistleblower di probabile isolamento ed emarginazione nell'ambiente lavorativo proprio in ragione della segnalazione con l'aggravio del rigoroso onere probatorio, di fronte alla probabile, e tutto sommato agevole, reazione datoriale. I soggetti esclusi dalle tutele presuntive in commento Rimangono, invece, esclusi dall'applicazione di tali presunzioni appunto gli “altri soggetti” indicati al comma 5 dell'art. 3 D.Lgs. 24/2023, vale a dire: i facilitatori (ossia chi assiste una persona segnalante nel processo di segnalazione, operanti all'interno del medesimo contesto lavorativo e la cui assistenza deve essere mantenuta riservata); le persone del medesimo contesto lavorativo della persona segnalante, del denunciante o di chi ha effettuato una divulgazione pubblica, legate a essi da uno stabile legame affettivo o di parentela entro il quarto grado; i colleghi di lavoro del medesimo contesto lavorativo, legate al segnalante o denunciante o a chi abbia effettuato una divulgazione pubblica da un rapporto abituale e corrente; gli enti di proprietà del segnalante o denunciante o di chi abbia effettuato una divulgazione pubblica o per i quali le stesse persone lavorano, nonché gli enti che operano nel medesimo contesto lavorativo delle predette persone. Nella specie, laddove uno di questi soggetti ritenga di aver subito una condotta ritorsiva e decida di agire per la relativa tutela, troveranno applicazione i normali principi in tema di prova elaborati e vigenti nella giurisprudenza e secondo i quali il lavoratore deve dimostrare che la ritorsione è l'unico motivo per cui sono stati posti in essere gli atti contestati: “Per affermare il carattere ritorsivo e quindi la nullità del provvedimento espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito, occorre specificamente dimostrare, con onere a carico del lavoratore, che l'intento discriminatorio e di rappresaglia per l'attività svolta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso” (cfr., ex multis, Cass. n. 14816/2005).
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Marcella De Trizio
- Avvocato - Studio ArlatiGhislandiRimani aggiornato sulle ultime notizie di fisco, lavoro, contabilità, impresa, finanziamenti, professioni e innovazione
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