giovedì 04/05/2023 • 06:00
La finalità di investimento o disinvestimento finanziario non incide sul regime di esenzione IVA applicabile alle operazioni relative alle azioni. Così, la Cassazione nega la detrazione IVA per gli acquisti a monte a fronte dell’assegnazione di azioni ai dipendenti delle società controllate, in linea con la tesi dell’Agenzia delle entrate.
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Con riferimento all'applicazione della previsione contenuta nell'art. 10, comma 1, n. 4) del DPR 633/1972 che fa rientrare tra le fattispecie di esenzione dall'IVA le operazioni relative alle azioni, non sono ravvisabili ad oggi (perlomeno con riguardo al caso oggetto di giudizio che si analizzerà nel seguito) situazioni di oggettiva incertezza tali da porre il contribuente in condizione di obiettiva difficoltà nell'individuazione dei negozi coinvolti dalla norma. In particolare, il giudice di legittimità chiarisce come il riferimento alle “operazioni relative alle azioni”, così come contenuto nella disposizione citata, abbia un “contenuto sufficientemente ampio da ricomprendere diverse prestazioni” che mirano alla realizzazione di tali operazioni, senza che rilevino requisiti ulteriori a quello oggettivo – non desumibile dal contenuto della previsione in questione – ai fini dell'applicazione dell'esenzione dall'imposta.
Il caso oggetto di sentenza
Tutto nasce dalla contestazione mossa dall'Agenzia delle entrate in merito alla detrazione dell'IVA per acquisiti correlati ad operazioni di assegnazione di azioni da parte della società controllante in favore dei dipendenti delle società controllate del gruppo a titolo di retribuzione straordinaria. In particolare, per via della riqualificazione dell'operazione da parte dei verificatori da mera prestazione di servizi generica in un'operazione incentrata sull'assegnazione di azioni (e come tale esente ai sensi della disposizione sopra citata), veniva contestata la detrazione dell'IVA da parte della controllante sugli acquisti “a monte” afferenti alle operazioni esenti in ossequio a quanto disposto dall'art. 19, comma 2, DPR 633/1972.
Più in dettaglio, lo schema contrattuale tra controllante e controllate prevedeva l'obbligo, in capo alla prima, di distribuire azioni, dalla stessa emesse, direttamente ai dipendenti delle controllate e, dall'altro lato, l'obbligo in capo a quest'ultime società di corrispondere alla controllante un importo parametrato al valore delle azioni al tempo della loro assegnazione.
Alla luce di quanto sopra, per quanto la tesi sostenuta dalla controllante, a difesa dell'inquadramento dell'operazione come prestazione di servizi generica, facesse principalmente leva sul presunto obbligo assunto dalle controllate di gestire ed implementare un piano di remunerazione del personale delle controllate a fronte di un corrispettivo pattuito con quest'ultime (anziché una mera assegnazione di azioni), il giudice di legittimità sposa appieno l'interpretazione operata dal giudice di secondo grado: si tratta di un incarico di mandato a cedere le azioni in favore dei dipendenti delle società controllate e come tale esente ai fini IVA ai sensi del combinato disposto di cui all'art. 10, comma 1, n. 4) e 9) del DPR 633/1972.
Non trova quindi rilevanza la presenza di una finalità di investimento o disinvestimento finanziario, ritenuta invece rilevante secondo la tesi difensiva, dovendosi più in generale fare riferimento all'oggetto della transazione (ossia, il trasferimento di azioni) affinché ricorra la fattispecie di esenzione prevista dalla legge.
La qualificazione del contratto è in capo al giudice
Punto interessante della sentenza, che affonda in realtà in indirizzi già consolidatisi in giurisprudenza della medesima Corte, riguarda la qualificazione del negozio giuridico che è prerogativa del giudice di merito, in conformità alle regole di interpretazione dei contratti previste dal Codice Civile.
Il passaggio trae origine dalla tesi della società secondo cui il giudice di merito avrebbe violato i principi civilistici sopramenzionati, ed in particolar modo l'obbligo di interpretazione del contratto secondo il senso letterale in esso contenuto (o, meglio, secondo la comune intenzione dei contraenti desumibile dal dato letterale dello stesso). Li avrebbe violati in quanto, da un semplice accordo per regolare una prestazione di servizi generica (ancorché afferente allo scambio azioni) secondo la volontà dalle parti, il giudice avrebbe riscontrato la presenza di un contratto avente ad oggetto una mera assegnazione di azioni a fronte di un corrispettivo, avvalorata dalla circostanza che tale corrispettivo corrispondeva peraltro esattamente al valore delle azioni emesse.
Tralasciando le ulteriori considerazioni a sostegno dell'interpretazione adottata dal giudice di merito, la Corte, richiamando la recente sentenza n. 30109 della Cassazione Civile del 13 ottobre 2022, ribadisce nuovamente come “l'accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito” e che, pertanto, ai fini dell'accertamento di un'eventuale violazione dei canoni legali di interpretazione dei contratti commessa dal giudice di merito non è sufficiente la semplice indicazione dei riferimenti delle norme violate ed i principi in esse contenuti, ma risulta dirimente precisare “in quale modo e con quali considerazioni il giudice di merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella merda contrapposizione dell'interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata”.
Fonte: Cass. 27 aprile 2023 n. 11075
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