Di recente, i principali quotidiani italiani hanno dato risalto alla notizia del tifoso viola che, malgrado la sciatalgia che lo costringeva ad essere assente dal lavoro, si era recato allo stadio per assistere alla partita Fiorentina-Juventus. Notato sugli spalti (con buona probabilità inquadrato da qualche telecamera), era stato licenziato dal datore di lavoro per aver tenuto un comportamento incompatibile con lo stato di malattia.
Il Giudice del lavoro di Arezzo, tuttavia, lo ha reintegrato nel posto di lavoro perché “assistere a una partita non richiede particolari sforzi fisici”.
La vicenda non impressiona gli addetti ai lavori, consapevoli che da almeno quarant'anni si ammette che il lavoratore assente per malattia “non per questo deve astenersi da ogni altra attività, quale in ipotesi un'attività ludica o di intrattenimento, anche espressione dei diritti della persona” (da ultimo Cass. n. 6047/2018), né egli ha un “divieto assoluto di prestare altra attività, anche a favore di terzi”, non trattandosi “di per sé, di inadempimento dei suoi obblighi” (Cass. n. 2244/1976).
Per effetto di questi consolidati principi, i repertori, nel tempo, si sono popolati delle vicende più bizzarre: il dipendente “assente per lombalgia, ma operativo, e con grosso impegno fisico, in una pizzeria di cui era anche comproprietario” (Cass. 17.12.2018, n. 32600); il lavoratore con analogo mal di schiena “sorpreso a movimentare sacchi di terriccio” (Cass. 1.10.2021, n. 26709); oppure, sul fronte delle attività ludiche, il malato che scrive, di sabato, di aver bisogno di un altro periodo di cure (come da certificato che sarebbe arrivato lunedì), ma domenica disputa una partita di calcio agonistico meritandosi le lodi della cronaca per aver “colpito un clamoroso incrocio dei pali in contropiede” (Trib. Parma, 23.9.2021, n. 52).
Non sempre, a dire il vero, la spunta il datore di lavoro. Anzi, si tratta di un tema così controverso che capita che fattispecie praticamente identiche possano originare soluzioni opposte. Solo per fare un esempio, è legittimo il licenziamento del dipendente assente a causa di una dermatite ma sorpreso a lavorare nel bar della moglie (perché “l'uso di acqua calda durante il lavaggio delle stoviglie, e l'esposizione a fonti di calore nella preparazione di bevande calde” sono ritenute “inopportune”; Cass. 2.9.2020, n. 18245); ma l'identica patologia viene minimizzata - dalla stessa Corte, in una diversa vicenda - a causa “dello stato di depressione di cui soffriva la dipendente, conseguita alla grave forma di dermatite” così che “l'attività svolta dalla predetta presso il bar gestito dalla figlia” costituiva “sostanzialmente una terapia di svago coadiuvante le cure specifiche […] e non un aggravio ritardante la guarigione” (Cass. 19.12.2000, n. 15916).
Sul punto, ci sono alcuni principi cardine:
la “malattia rilevante a fini di sospensione della prestazione lavorativa ricomprende le situazioni nelle quali l'infermità abbia determinato, per intrinseca gravità e/o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale - sebbene transitoria - incapacità al lavoro” (cfr. per tutte, Cass. n. 14065/1999);
anche laddove la malattia comprometta la possibilità di svolgere l'attività oggetto del rapporto di lavoro, può comunque accadere che le residue capacità psico-fisiche possano consentire al lavoratore altre e diverse attività;
il compimento di tali diverse attività può “giustificare la sanzione del licenziamento, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, sia nell'ipotesi in cui la diversa attività sia di per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza dell'infermità addotta […], dimostrando una sua fraudolenta simulazione, sia quando l'attività stessa, valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell'ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio” (da ultimo, Cass. n. 13062/22 e Cass. n. 13980/2020).
Per fare uno degli esempi più semplici tra quelli reperibili in giurisprudenza, il dipendente che, a causa “di una dolenzia alla spalla determinata da un lipoma” è assente in malattia e non svolge le sue mansioni di addetto al lavaggio di automezzi è sicuramente inadempiente al suo rapporto di lavoro quando è trovato a svolgere operazioni di “sbancamento di terreno con mezzi meccanici e manuali”. Si tratta infatti “di una assenza non necessaria, per essere l'occupazione concreta non meno gravosa di quella lavorativa, ed inoltre obiettivamente idonea a ritardare la guarigione” (Cass. n. 26496/2018).
Il contrasto di giurisprudenza
Ben più sfumate - e raramente riconducibili a mere questioni di prestanza fisica dirottata altrove - sono le fattispecie che più frequentemente sono portate all'attenzione dei Giudici del lavoro. Ulteriormente complicate da un contrasto giurisprudenziale in merito al soggetto onerato di fornire la prova sulla compatibilità, con la malattia che giustifica l'assenza, delle attività lavorative o ludiche svolte dal lavoratore incolpato.
Secondo un primo orientamento, considerato “consolidato” dalla Suprema Corte negli anni novanta e a tutt'oggi riproposto, spetta al “lavoratore, secondo il principio sulla distribuzione dell'onere della prova, dimostrare la compatibilità di dette attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa” (Cass. n. 11142/1991; Cass. n. 4857/1986; Cass. n. 6047/2018; Cass. n. 9647/2021). Il principio cardine di questo orientamento è il criterio della “vicinanza alla prova”, che opera in assenza di indicazioni univoche sulla distribuzione dell'onere della prova. Siccome la “vicinanza riguarda la possibilità di conoscere in via diretta o indiretta il fatto” (Cass. n. 12910/2022) si ritiene che il soggetto malato sia quello più in grado di dimostrare la compatibilità di tali attività con la malattia che lo affligge, di cui conosce il dettaglio ed il decorso.
Per contro, un diverso orientamento ritiene che tale onere sia a carico del datore di lavoro, in ossequio alla regola che accolla al datore di lavoro il peso di provare tutte le circostanze, oggettive e soggettive, che integrano la fattispecie che giustifica il licenziamento. Dunque, “chi licenzia non può limitarsi a fornire la prova che il lavoratore abbia svolto in costanza di malattia altra attività durante la malattia” (perché non esiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto in tal senso), ma “deve anche provare, in relazione alla contestazione disciplinare, o che la malattia era simulata ovvero che la diversa attività posta in essere dal dipendente fosse potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio” (così Cass. n. 13063/2022; Cass. n. 4869 del 2014; Cass. n. 1173 del 2018; Cass. n. 13980 del 2020). Deve anche trattarsi, vertendosi in tema di giusta causa, di un fatto che comporti una grave negazione dell'elemento fiduciario, con riferimento agli aspetti concreti del rapporto (la natura e qualità del singolo rapporto, la posizione delle parti, il grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni, e la portata soggettiva del fatto stesso, ovvero: le circostanze del suo verificarsi, i motivi, e l'intensità dell'elemento volitivo.
LA SOLUZIONE
Il secondo orientamento, che prevede che l'onere della prova sia in capo al datore di lavoro, ha un fondamento più giuridico e meno empirico, ed è da seguire, e da preferire al primo.
Non solo. La prova da acquisire è complicata. Transita per un giudizio ex ante - che ha per oggetto il comportamento del dipendente nel momento in cui egli, pur malato e assente dal lavoro, svolge un'attività che può recare pregiudizio alla tempestiva ripresa del servizio - che deve essere corroborato da una valutazione effettuata ex post in giudizio, anche con l'ausilio di una consulenza di tipo medico-legale (cfr. Cass. n. 13063/2022).
Con questi presupposti, scaricare sul lavoratore l'onere della prova di dimostrare la compatibilità della diversa attività svolta - lavorativa o ludica - con lo stato di malattia che ne impedisce la presenza in servizio, è un rischio enorme, e da non correre.
Occorrerà piuttosto munirsi di un parere medico-legale al riguardo, già in occasione della valutazione ex ante del comportamento del dipendente.
Si tratta, inoltre, di un campo in cui chi si difende dà fondo alla propria fantasia, e non va sottovalutato. Per riprendere l'esempio d'apertura non ci si stupirebbe se, leggendo gli atti di causa, il tifoso della Fiorentina si fosse difeso sostenendo che l'assenza dallo stadio (non la presenza), in un match così importante, fosse potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il suo rientro in servizio.
Conformi al primo orientamento: Cass. n. 4857/1986; Cass. n. 11142/1991; Cass. n. 4237/2015; Cass. n. 586/2016; Cass. n. 6047/2018; Cass. n. 9647/2021.
Conformi al secondo orientamento: Cass. n. 6375/2011; Cass. n. 15476/2012; Cass. n. 4869/2014; Cass. n. 1173/2018; Cass. n. 13980/2020; Cass. n. 13063/2022.