Ricorre quest'anno il cinquantesimo anniversario dall'entrata in vigore nell'ordinamento nazionale dell'imposta sul valore aggiunto.
Nonostante si celebrino le “nozze d'oro” del tributo, non può dirsi ancora completato il processo di adeguamento della normativa interna ai principi generali di matrice unionale che sono alla base dell'imposta e del corrispondente regime sanzionatorio.
Tra questi, i principi di neutralità ed effettività dell'imposta e quello di proporzionalità delle sanzioni che, talvolta, sono ingiustamente sacrificati dal legislatore nazionale o da interpretazioni della Corte di cassazione non sempre in linea con quelle della Corte di Giustizia dell'Unione europea.
Applicazione dell'IVA in fattura
Un caso emblematico di non perfetto allineamento ai richiamati principi è quello relativo all'erronea applicazione dell'IVA in fattura e ai rimedi per il suo recupero.
Come è noto, la Commissione europea, con la procedura di infrazione EU Pilot 9164/17/TAXU, ha sollecitato un intervento del legislatore nazionale al fine di contemperare l'esigenza di tutela del gettito erariale con la necessità di garantire al cedente/prestatore la possibilità di esercitare il diritto di rimborso dell'imposta non dovuta.
La Corte di giustizia, nella sentenza C-427/10 del 15 dicembre 2011 (Banca Antoniana Popolare Veneta), ha ritenuto che la tutela dei principi di effettività e di neutralità esige che sia garantita la restituzione dell'IVA al fornitore, se esposto all'azione di ripetizione del cliente.
Il disallineamento dei termini a disposizione, rispettivamente, del fornitore per chiedere il rimborso all'amministrazione finanziaria (due anni) e del cliente per l'azione di ripetizione nei confronti del fornitore (dieci anni) non deve quindi rendere impossibile o eccessivamente difficoltoso l'esercizio del diritto di rimborso dell'imposta non dovuta.
Alla luce di tale insegnamento, la Corte di cassazione, con sentenza n. 12666 del 20 luglio 2012, aveva quindi riconosciuto al fornitore il diritto al rimborso dell'IVA non dovuta anche oltre il termine decadenziale di due anni dal versamento, ma soltanto in presenza di un “provvedimento coattivo” del giudice civile che avesse accertato il diritto del cliente alla restituzione dell'imposta.
Il che aveva indotto l'Agenzia delle entrate a negare il rimborso dell'IVA non dovuta, dopo il termine biennale dal versamento, nei casi in cui il fornitore avesse rimborsato il cliente spontaneamente e non a seguito di una sentenza del giudice civile.
Tale interpretazione è stata ritenuta dalla Commissione europea sproporzionata e in contrasto con i principi di effettività e neutralità, nei casi in cui l'Amministrazione finanziaria fosse consapevole della non debenza dell'imposta, per effetto di accertamento in capo al fornitore ovvero al cliente, e dell'inesistenza di un conseguente rischio fiscale, derivante dal rimborso di detta imposta.
Tali censure hanno pertanto indotto il legislatore nazionale ad introdurre l'art. 30-ter del DPR 633/1972 (ad opera dell'art. 8 Legge 167/2017), con il quale è stato previsto che, nel caso di applicazione di un'imposta non dovuta, accertata in via definitiva dall'Amministrazione finanziaria, la domanda di restituzione possa essere presentata dal cedente o prestatore entro il termine di due anni, non più dal versamento, ma dall'avvenuta restituzione al cessionario o committente dell'imposta a lui addebitata in fattura a titolo di rivalsa.
Regime sanzionatorio
Con la legge di bilancio 2018 (cfr. art. 1, comma 935, L. 205/2017), il legislatore nazionale è successivamente intervenuto sul regime sanzionatorio applicabile al cessionario/committente di cui al secondo periodo del comma 6 dell'art. 6 del D.Lgs. n. 471/1997 disponendo che “In caso di applicazione dell'imposta in misura superiore a quella effettiva, erroneamente assolta dal cedente o prestatore, fermo restando il diritto del cessionario o committente alla detrazione ai sensi degli articoli 19 e seguenti” del D.P.R. n. 633/1972, quest'ultimo “è punito con la sanzione amministrativa compresa fra 250 euro e 10.000 euro”, anziché in misura proporzionale come previsto in precedenza, salvo che il versamento non sia avvenuto in un contesto di frode fiscale.
La dottrina maggioritaria e la stessa prassi amministrativa (cfr. circ. Guardia di Finanza 13/4/2018, prot. n. 114153, All. 2, pag. 22) hanno ritenuto tale disposizione riferibile sia al caso di IVA applicata in misura superiore a quella dovuta, sia a quelli di imposta applicata in relazione ad operazioni esenti, non imponibili o, per la dottrina, anche escluse.
La Corte di cassazione ha invece interpretato restrittivamente l'ambito oggettivo di applicazione di tale disciplina, traendo spunto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia della UE, secondo cui l'esercizio del diritto di detrazione è circoscritto alle imposte corrispondenti ad un'operazione soggetta all'IVA e versate in quanto dovute (CGUE 13/12/1989, causa C-342/87, Genius Holding, p. 13; CGUE 15/3/2007, causa C-35/05, Reemtsma Cigarettenfabriken GmbH, p. 23, richiamate, con altre, da Cass. 3/11/2020, n. 24289).
In particolare, è stato ritenuto che il diritto a detrarre l'IVA fatturata è conseguente all'effettiva realizzazione di un'operazione imponibile, e il suo esercizio non si estende all'IVA dovuta per il solo fatto e nella misura in cui essa sia stata indicata in fattura (CGUE 31/1/2013, causa C-643/11, LVK-56 EOOD, p. 34 ss.). Tale orientamento è stato poi esteso dalla Suprema Corte anche all'ipotesi di operazioni imponibili in cui l'IVA sia stata corrisposta con riferimento ad un'aliquota maggiore rispetto a quella effettivamente dovuta, con conseguente disconoscimento del diritto alla detrazione dell'importo non dovuto.
Così argomentando, tuttavia, l'IVA non dovuta risulta recuperabile esclusivamente tramite variazione in diminuzione ex art. 26 del D.P.R. n. 633/1972 ovvero – una volta decorso il termine per la variazione – attraverso l'attivazione della procedura di rimborso di cui al citato art. 30-ter.
Senonché, quest'ultima norma, secondo l'Agenzia delle entrate (circ. 20/E del 2021), si qualifica come “norma residuale ed eccezionale” che viene in rilievo solo in presenza di “condizioni oggettive” che non consentono di procedere con la variazione in diminuzione ex art. 26. Per cui, secondo tale impostazione, l'azione di rimborso non sarebbe esperibile se il termine per la variazione sia scaduto per “colpevole” inerzia del contribuente.
Una siffatta ricostruzione sistematica della problematica in oggetto finisce però per confliggere con le indicazioni della stessa Corte di Giustizia UE (sent. 8/5/2019, causa C-712/17, EN.SA S.r.l.) sull'obbligo, per gli Stati membri, anche nel caso di operazioni inesistenti, di consentire la rettifica del debito d'imposta risultante dall'obbligo di assolvere l'imposta indicata in fattura, qualora l'emittente di detta fattura, che non era in buona fede, abbia, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdite di gettito fiscale.
Restituzione dell'imposta
Nelle ipotesi in cui risulti esclusa la sussistenza di danni per l'Erario, il riconoscimento della detraibilità/restituzione dell'IVA non dovuta, quale rimedio estremo per ripristinare la necessaria simmetria dell'imposta, deve ritenersi quindi l'unica soluzione idonea a salvaguardare adeguatamente i principi unionali di neutralità, effettività e proporzionalità del tributo, ai quali il legislatore e la giurisprudenza nazionali in materia sono pertanto tenuti a uniformarsi.
In tal senso sembra finalmente orientata la prassi dell'Agenzia delle entrate che ha ammesso la restituzione dell'imposta nel caso di un accordo transattivo intervenuto oltre l'anno dall'emissione delle fatture, in mancanza di rischio fiscale per non avere il cessionario/committente esercitato il diritto di detrazione (Agenzia delle entrate, risp. interpello n. 762/2021) e che, superando la lettera dell'art. 30-ter, ha riconosciuto a quest'ultimo il diritto al rimborso dell'IVA accertata e restituita al cedente/prestatore (risp. n. 858/2021).
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