sabato 18/02/2023 • 06:00
La Cassazione, con ordinanza n. 2392/2023, ha ritenuto che in caso di licenziamento del dirigente la tutela reale possa essere pattiziamente estesa al di fuori dei limiti di cui all'art. 18 St. Lav. solo se tale estensione risulta chiaramente disciplinata dal contratto individuale o collettivo di lavoro.
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Il dirigente gode di uno status particolare; ha un'autonomia ed una discrezionalità nelle decisioni, ha un potere decisionale e rappresentativo idoneo ad influenzare l'andamento e la vita dell'azienda o del settore cui è preposto, tanto al suo interno quanto nei rapporti con i terzi, il che ne fa un vero e proprio alter ego dell'imprenditore di cui, inoltre, deve godere sempre la piena fiducia (C.Cost. 1° luglio 1992 n. 309).
Così la Corte Costituzionale, già nel 1992, inquadrava la figura del dirigente come figura che, pur rientrando nel novero dell'art. 2094 c.c., come lavoratore dipendente, è soggetto a particolari discipline proprio in virtù del suo ruolo, dotato di particolare autonomia accordatagli dall'imprenditore - datore di lavoro, in forza di quel particolare rapporto di fiducia intercorrente tra i due. Interrotto per svariate (ma sempre legittime) ragioni questo speciale rapporto fiduciario con l'imprenditore, il dirigente non gode delle medesime tutele previste invece per i colleghi quadri, impiegati o operai.
Sono molti gli esempi normativi cui si può ricorrere per osservare la particolare disciplina prevista per il rapporto di lavoro dirigenziale: il particolare status del dirigente d'azienda (o d'impresa) trova puntuale conferma nella legge, che accentua la differente disciplina a lui riservata rispetto a quella degli altri collaboratori dell'imprenditore e, al tempo stesso, tempera lo stesso vincolo della subordinazione per privilegiare gli aspetti della collaborazione e della fiducia che è alla base del rapporto (C. Vitale, Sul licenziamento dei dirigenti, in Giust. civ., fasc.3, 1996, pag. 127).
La particolarità di questo rapporto di lavoro si traduce infatti nelle modalità di regolazione dello stesso, quasi esclusivamente attraverso normative speciali e attraverso la contrattazione collettiva dei diversi settori di appartenenza.
Anche se la Suprema Corte nel corso del tempo ha superato – con riguardo a specifiche fattispecie - la tradizionale configurazione del dirigente quale alter ego dell'imprenditore, valorizzando la concreta complessità della struttura aziendale, assimilando la disciplina delle tutele previste per i lavoratori subordinati durante il corso del rapporto di lavoro, restano comunque differenze sostanziali e insuperate per quanto riguarda il regime di stabilità del rapporto di lavoro dirigenziale.
Una fra tali differenze è rappresentata dalla c.d. libera recedibilità, fattispecie affrontata dalla pronuncia della Cass. 26 gennaio 2023, n. 2392, che si commenta.
Il caso
La Corte di Cassazione è stata per due volte interrogata da un ex dirigente sulla vicenda che riguardava il proprio licenziamento, intimatogli per giusta causa in seguito a diverse contestazioni disciplinari: una prima volta, chiedendo la cassazione della sentenza di secondo grado che lo aveva visto soccombente, una seconda, chiedendo la riforma del rimedio previsto dalla Corte d'Appello – che pur aveva accertato l'illegittimità del licenziamento, ritenendo leciti i comportamenti assunti dal lavoratore e generiche le contestazioni, tanto da impedire al lavoratore di esplicare a pieno il proprio diritto alla difesa e aveva applicato come rimedio la tutela reale indennitaria prevista - chiamata a pronunciarsi dalla Corte di Cassazione, avendo questa cassato con rinvio l'appellata sentenza.
I fatti determinanti il licenziamento del dirigente sono sempre stati pacifici, addirittura alcuni non contestati; tuttavia, non era pacifica la liceità degli stessi, in quanto, letti alla luce del necessario bilanciamento di interessi che sempre viene richiesto dall'ordinamento italiano, questi descrivevano una situazione del tutto diversa e non idonea a giustificare un licenziamento, secondo la Cassazione. Il rapporto di lavoro infatti si era interrotto a causa del “reiterato atteggiamento di insubordinazione e violazione degli obblighi del lavoratore ex art. 2104 c.c.” – il lavoratore aveva gravemente accusato i vertici del Consorzio per cui lavorava di illeciti, ma soprattutto aveva sistematicamente registrato i colloqui con i propri colleghi, all'insaputa degli stessi, generando così all'interno del Consorzio, un luogo di lavoro tanto ostile da incidere sul rendimento proprio e degli altri uffici nonché comportare un pregiudizio grave per l'amministrazione consortile.
Il giudice di legittimità ha ritenuto che la registrazione di conversazioni fra colleghi non potesse essere considerata tout court illecita in quanto l'utilizzo, a fini difensivi, della registrazione di colloqui intercorsi tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti: tanto discende dal necessario bilanciamento tra le contrapposte istanze di riservatezza, da una parte, e di tutela giurisdizionale del diritto del lavoratore dall'altra e pertanto, se proporzionale alle esigenze di tutela – e su tanto si sarebbe dovuta pronunciare la Corte d'Appello in funzione di giudice del rinvio – tale comportamento non è idoneo a integrare un illecito disciplinare.
La Corte d'appello di Bologna, riassunto il giudizio, ha accertato il rispetto dei limiti entro i quali la condotta del lavoratore poteva ritenersi giustificata dall'esercizio del proprio diritto alla difesa e ha pertanto condannato il datore, datore di lavoro al risarcimento del danno in favore del lavoratore pari a sedici mensilità, anche alla luce della genericità della contestazione, la quale non avrebbe messo il lavoratore nelle condizioni di giustificare la propria condotta.
Ha proposto ricorso in Cassazione avverso detta sentenza il lavoratore, affidandolo a tre motivi, tra cui la violazione dell'art. 81 CCNL per i dirigenti dei consorzi di bonifica, che derogava al regime di tutela previsto nel caso di illegittimità del licenziamento, prevedendo l'applicazione della tutela reale e non della indennitaria. Il datore ha resistito affidandosi a dieci motivi, nessuno di questi accolto dalla Corte.
La libera recedibilità
Si è anticipato che il rapporto di lavoro dirigenziale, proprio per le sue particolari caratteristiche, si regge su un particolare gioco di equilibri da cui esce sconfitto il regime di tutela previsto per il lavoratore dirigente licenziato.
Proprio in virtù della specialità della natura del rapporto, e delle specifiche esigenze da far calzare al caso di specie, la regolamentazione del licenziamento dei dirigenti, che ha carattere residuale, è perlopiù affidata alla contrattazione collettiva.
La disciplina normativa s'incentra soprattutto nelle norme degli artt. 2118 (recesso dal contratto a tempo indeterminato) e 2119 (Recesso per giusta causa) c.c., che prevedono il recesso ordinario e quello straordinario dal rapporto di lavoro. Infatti, mentre per i lavoratori delle altre categorie il licenziamento in tanto è legittimo in quanto esista un giustificato motivo, soggettivo od oggettivo, per i dirigenti vige, in difetto di applicabilità della diversa e più favorevole disciplina della contrattazione collettiva, il regime della libera recedibilità, ai sensi dell'art. 10 Legge 604/66, sui licenziamenti individuali, che, in forma implicita ma inequivoca, esclude dall'area della sua applicabilità i dirigenti.
Tale esclusione trova la sua giustificazione nella “considerazione che il rapporto di lavoro di tale categoria abbia garanzie e caratteristiche tali da renderlo essenzialmente diverso dai normali contratti in materia di lavoro (Doc. n. 2542 della IV legislatura e relativa relazione di maggioranza), su cui ha fatto leva la pronuncia della Corte costituzionale del 6 luglio 1972 con la quale il giudice delle leggi ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale del citato art. 10 nella parte in cui esclude dall'area di applicabilità della legge sui licenziamenti individuali la categoria dei dirigenti. Inoltre, i giudici della Consulta non hanno omesso di sottolineare il carattere fiduciario che costituisce elemento predominante del rapporto di lavoro dei dirigenti (C. Cost. 24 ottobre 1992 n. 404, in Foro it. 1993, I, 322.).
Alla minor tutela per i soggetti dirigenziali che discende dai motivi di cui sopra, supplisce la contrattazione collettiva, prevedendo generalmente l'obbligo per il datore di lavoro di giustificazione e motivazione del licenziamento del dirigente.
La giusta causa di recesso nel rapporto con il dirigente deve essere individuata in un atto o fatto idoneo a ledere il rapporto di fiducia reciproca istaurato con il datore di lavoro; le parti sociali comunque non hanno definito criteri univoci e inopinabile circa la liceità delle cause di licenziamento del dirigente, tenendo sempre a mente come quel particolare rapporto di lavoro si basasse in via pressoché esclusiva su caratteri di stima reciproca e fiducia tra imprenditore e dirigente.
Se allora è vero che fatti o condotte non idonei ad integrare una giusta causa, ovvero giustificato motivo di recesso, per la generalità dei rapporti di lavoro possano giustificare, invece, il licenziamento del dirigente, ciò non si traduce nell'insussistenza di un profilo di tutela per quest'ultimo, teso ad ammettere un sindacato sulla legittimità del licenziamento.
Le conseguenze dell'accertata illegittimità del licenziamento
Qualora venga accertata l'illegittimità del licenziamento del dirigente, il pacchetto di tutele previsto per il dirigente annovera principalmente profili di tutela indennitaria. Il silenzio della legge sui profili di tutela del licenziamento illegittimo del dirigente, subisce un'importante deroga in tutti i casi di licenziamento nullo, cristallizzati dal legislatore al co. 1 dell'art. 18 Legge 300/70 (come modificato con Legge 92/2012, dato che la successiva Legge 81/2015 non applica le tutele crescenti ai dirigenti). La disposizione riguarda i casi di licenziamento nullo o orale, prescindendo (afferma la stessa norma) dalla dimensione occupazionale dell'azienda. La ratio della norma esclude qualunque rilevanza alla qualifica, che il soggetto riveste all'interno dell'organizzazione aziendale (dirigente, quadro, impiegato ovvero operaio), se il licenziamento viene intimato oralmente, oppure se rientra fra le ipotesi di licenziamento nullo, al lavoratore spetta la tutela garantita dall'art. 18, c. 1, St. Lav.
Tale fattispecie costituisce l'unica ipotesi prevista dal legislatore per cui il dirigente può essere reintegrato sul posto di lavoro e tanto perché tradizionalmente il fondamento giustificativo, che esclude la tutela reintegratoria (c.d. reale) nel rapporto di lavoro dirigenziale, viene individuato sulla base di quel vincolo di fiducia sussistente fra datore e dirigente di cui sopra, per cui, anche nei casi di illegittimità del licenziamento, l'ipotesi generale rimane la mera tutela risarcitoria, stante la presunzione che l'evento, contestato nel licenziamento, abbia comunque incrinato in modo irreparabile il rapporto fra datore e dirigente, e, nell'ottica del bilanciamento tra esigenze di salvaguardia dell'impresa e del benessere dell'impresa stessa, non è ammissibile la presenza di un elemento che turbi o che possa turbare l'equilibrio su cui si regge tutta l'organizzazione.
Alla eccezionalità della regola sopra descritta si aggiunge, a dire il vero un'ipotesi di deroga: l'espressa previsione dei CCNL, come specificato dalla Corte di Cassazione: quando la tutela reale è prevista dal Contratto Collettivo Nazionale dei dirigenti, allora nulla osta al fatto che, accertata la nullità del licenziamento, al lavoratore possa essere garantita la reintegrazione sul posto di lavoro (Cass. 19554/2016).
Alla luce di tutto quanto detto sopra è facile intuire la ratio dietro la scelta di derogare la disciplina generale grazie ai contratti collettivi: le parti sociali sono l'organismo più vicino alle ragioni delle categorie di lavoratori, e, pur riconoscendo la tipicità di ogni singolo rapporto dirigenziale, hanno il compito di operare un bilanciamento basandosi su criteri e assunti via via più specifici, più adatti al singolo caso.
Come anticipato infatti, alla carenza di una tutela reale per i dirigenti esposti, secondo la disciplina legislativa, all'alea della libera recedibilità dell'imprenditore dal rapporto ha sopperito da tempo la contrattazione collettiva di categoria che in taluni casi ha imposto un obbligo di giustificazione del recesso ed ha disciplinato un procedimento arbitrale per sindacare l'osservanza da parte del datore di lavoro dell'accennato obbligo.
Cosa dice la Cassazione
Nella pronuncia in commento, la Corte – pur riconoscendo per mere ragioni al dirigente esclusivamente la tutela indennitaria - ha ribadito il principio secondo il quale “la tutela reale può essere pattiziamente estesa al di fuori dei limiti legati soggettivi e oggettivi a condizione però che tale estensione risulti chiaramente dalla disciplina individuale o collettiva del rapporto dedotto in giudizio. Nel caso in esame, il fatto che il contratto collettivo per i dirigenti dei Consorzi di bonifica, abbia tipizzato alcune ipotesi di risoluzione del rapporto, estendendo ai dirigenti le altre disposizioni collettive concernenti gli impiegati di grado immediatamente inferiore va inteso, come ha correttamente sottolineato la Corte di merito, nel senso che ai primi sono estese solo le conseguenze risarcitorie del licenziamento intimato al di fuori delle ipotesi previste dalla stessa disciplina collettiva, ma non anche il regime legale di stabilità reale.” (Cass. 26 gennaio 2023 n. 2392).
Nella sentenza in commento, il giudice di legittimità ha basato la propria decisione facendo riferimento a due temi interpretativi: il primo per cui, non sussistendo nel caso del dirigente in questione i requisiti di età a cui la contrattazione collettiva ricollegava l'applicazione della tutela reintegratoria, questa semplicemente non va applicata. La condivisibilità del tema sta nel carattere attribuito alla contrattazione collettiva, per cui, voce delle reali e concrete esigenze delle categorie di lavoratori rappresentati dal sindacato che sottoscrive il detto CCNL, ci si deve affidare alle valutazioni da essa condivise, ed essendo già un regime di deroga, più favorevole rispetto a quanto contrariamente applicabile, non può essere esteso senza che venga meno la tutela riservata all'imprenditore e al benessere dell'azienda.
Fonte: Cass. 26 gennaio 2023 n. 2392
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