L’esperienza mostra la crescente diffusione di una prassi amministrativa, finalizzata al contrasto dell’indebita utilizzazione di crediti inesistenti per l’assolvimento di contributi previdenziali, per la quale ad un “atto di recupero” dell’Agenzia delle Entrate si aggiunge un avviso di irregolarità dell’INPS, con invito a pagare la stessa somma a titolo di contributo asseritamente insoluto, sotto pena di mancato rilascio del DURC.
Le due azioni, che determinano la duplicazione dell’obbligazione, si pongono in logica antitesi tra loro e comportano la lesione del principio di legalità dell’azione amministrativa.
Compensazioni di crediti di imposta e frodi fiscali
L'art. 17 D.Lgs. 241/97, che consente di compensare crediti di imposta e debiti tributari e contributivi di vario genere, ha innovato una tradizione giuridica che impediva tali operazioni nel superiore interesse alla riscossione. Tale riforma, consacrata dall'art. 8 c. 1 dello Statuto del Contribuente, è generalmente ritenuta salutare, per aver rimediato alla cronica incapacità dell'Amministrazione di provvedere ai rimborsi dovuti ai contribuenti.
L'area dei crediti di imposta compensabili si è poi allargata all'infinito, allorché sono divenuti tali innumerevoli benefici (cd. tax expanditures), che crediti di imposta non sono (crediti per ricerca e sviluppo, per incrementi occupazionali, per investimenti in aree svantaggiate, per formazione, etc.). Per di più, tali crediti sono concessi di norma in modo fiduciario, senza nessun controllo preventivo dell'Amministrazione.
Dopo parecchio tempo, qualcuno si è accorto che questo sistema non può ritenersi conforme al perenne intento di combattere l'evasione, e costituisce anzi uno ottimo strumento per favorirla. Di fatto, le indebite compensazioni sono diventate terreno fertile per comportamenti fraudolenti, in contrasto con i principi della solidarietà sociale e del dovere contributivo.
Il legislatore ha finito per adottare una pluralità di rimedi. Prima ha dato copertura legislativa (con norme lacunose ed incerte) agli “atti di recupero” creati dalla prassi amministrativa (art. 1 c. 421 ss. L. 311/2004 e art. 27 c. 16 ss. DL 185/2008); poi ha introdotto severe sanzioni, sia amministrative che penali, per combattere il fenomeno (art. 10 quater D.Lgs. 74/2000, che prevede la reclusione fino a sei anni per le compensazioni di crediti inesistenti, ed art. 13 c. 5 D.Lgs. 471/97, che prevede una pena pecuniaria dal 100% al 200% del credito indebitamente utilizzato).
L'intervento dell'INPS nel contrasto alle indebite compensazioni per pagamento di contributi previdenziali
Il sistema si sta insensibilmente evolvendo verso nuove frontiere. È ormai comparso sulla scena, allorché l'indebita compensazione sia stata effettuata per il pagamento di un contributo previdenziale, un nuovo sistema di coazione e di riscossione.
La vicenda ha preso avvio allorché è esploso il caso delle compensazioni effettuate mediante accollo, che si sono diffuse sulla base dell'interpretazione combinata dei primi due commi dell'art. 8 dello Statuto del Contribuente. L'Agenzia delle Entrate ha ritenuto che tale forma di compensazione non fosse consentita (v. risoluzione n. 140/2017), ma ha continuato a tollerarla in via di fatto, fino a quando il legislatore non si è deciso a vietarla espressamente con l'art. 1 DL 124/2019.
La reazione dell'Agenzia è stata drastica, ed il recupero dei crediti indebitamente compensati in tali forme ha costituito un caposaldo della sua attività di contrasto all'evasione. Qualora la compensazione fosse stata effettuata per il pagamento di contributi previdenziali, è intervenuto in soccorso l'INPS, che – deducendo un'inadempienza contributiva – ha iniziato ad emettere avvisi di irregolarità e ad intimare il pagamento entro breve termine di somme equivalenti al credito di imposta indebitamente compensato, sotto pena di mancato rilascio del DURC; e la condotta dell'INPS è stata avallata dai Giudici del lavoro con granitica giurisprudenza, nel presupposto dell'illegittimità delle predette compensazioni. Il sistema si è rivelato efficace, perché l'esigenza di conseguire il DURC, come condizione necessaria di sopravvivenza, ha imposto alle imprese di pagare immediatamente la somma intimata.
Ma da cosa nasce cosa: perché limitare questa cooperazione ai casi di indebita compensazione mediante accollo? Nel nome dell'interesse pubblico e dell'efficienza della riscossione, e con il conforto della granitica giurisprudenza sopra richiamata, la stessa logica può valere per ogni tipo di compensazione che l'Agenzia ritenga indebita a qualunque titolo, allorquando il credito ritenuto inesistente sia utilizzato per il pagamento di un contributo previdenziale. Ed allora, perché affidare l'azione di recupero alle sole procedure di riscossione coattiva previste dalle norme tributarie, e non richiedere all'INPS di configurare un'inadempienza contributiva ogni qual volta il contributo risulti versato con l'utilizzo di un credito di imposta contestato?
L'esperienza svela che il metodo si va allargando, anche se si procede a fari spenti: l'INPS configura inadempienze contributive con l'enigmatica formula: “accertamento ADE”; l'Agenzia delle Entrate non consente l'accesso ai documenti amministrativi, che possano svelare gli effettivi termini della questione. Talvolta, quando si rivela che la somma pretesa dai due Enti è sostanzialmente la stessa, si ricorre ad un atto di clemenza, con la bonaria rinuncia di uno dei due alla propria pretesa. Nell'ottica di un autoritarismo efficiente e pragmatico, la formula si consolida con successo.
I profili di legittimità
La questione potrebbe presentare profili problematici, nella prospettiva di uno Stato di diritto, fondato sull'osservanza delle regole. Si profila infatti una questione giuridica, che né le Amministrazioni, né i giudici, né la dottrina, hanno inteso fino ad ora esaminare: come possono coesistere il recupero del credito indebitamente utilizzato da parte dell'Agenzia e quello dei contributi insoluti da parte dell'INPS? Spetta all'Agenzia il potere/dovere di recuperare il credito di imposta indebitamente utilizzato, o all'INPS quello di recuperare il contributo previdenziale rimasto insoluto? O si può sostenere che l'azione può essere legittimamente esercitata da entrambi gli enti, perché la natura indebita della compensazione comporta il mancato versamento del contributo previdenziale?
Potrebbe sembrare che la questione sia irrilevante, perché l'importo del credito è sempre lo stesso. In realtà, non è così, perché i soggetti creditori e le causali della pretesa sono diversi. Il cumulo delle azioni comporta la duplicazione dell'obbligazione, perché la stessa somma viene pretesa da due diversi soggetti per ragioni diverse e con diversi strumenti giuridici. Quindi, è legittimo duplicare l'obbligazione? In subordine, è possibile scegliere l'uno o l'altro metodo di riscossione, in base alla convenienza ed all'efficacia?
La risposta ai quesiti sopra formulati, che nessuno vuol vedere, appare in realtà di solare evidenza:
in caso di rifiuto dell'apposizione della quietanza e di “scarto” del mod. f/24 recante l'indebita compensazione, l'Agenzia delle Entrate avrà esaurito la sua funzione, il credito previdenziale sarà rimasto insoluto e l'INPS emetterà doverosamente un avviso di irregolarità per inadempienza contributiva;
se invece l'Agenzia, non avvedendosi dell'irregolarità, emette regolare quietanza, l'INPS sarà comunque soddisfatto della sua pretesa creditoria mediante il sistema di riparto di cui al D.Lgs. 218/97, con onere a carico dell'erario contabilmente bilanciato dall'annullamento del credito di imposta recato in compensazione. Allorché successive verifiche rivelino l'inesistenza del credito compensato, l'Agenzia (che avrà subito la relativa perdita economica) dovrà recuperare il credito indebitamente compensato, secondo il testuale disposto del citato art. 1 c. 421 L. 311/2004.
Delle due l'una: o il credito di imposta è stato indebitamente utilizzato per soddisfare il contributo previdenziale (in guisa che l'unico soggetto legittimato ad agire è l'Agenzia delle Entrate); ovvero non è stato utilizzato, in guisa che permane l'inadempienza contributiva che giustifica la pretesa di pagamento ed il diniego del DURC da parte dell'INPS. Il cumulo delle azioni costituisce una contraddizione in termini; e poiché nei casi in esame il problema è quello del recupero del credito di imposta indebitamente utilizzato in compensazione, come da quietanza apposta sul f/24 formalmente regolare, l'unico soggetto legittimato ad agire è l'Agenzia delle Entrate, così come la Cassazione ha già inequivocabilmente dichiarato con sentenza n. 4154/2018, che tutti (Agenzia delle Entrate e giudici di merito in primis) si ostinano ad ignorare.
Questo principio è del tutto coerente con gli elementi di fatto che normalmente si configurano in simili fattispecie e con il quadro giuridico complessivo: sotto il primo profilo, nelle vicende in esame i contributi risultano già accreditati nel cassetto fiscale del contribuente, e l'INPS si avvede della pretesa inadempienza non alla scadenza dei termini di pagamento, ma solo ex post, su avvertimento della Agenzia; in via di diritto, l'infondatezza della pretesa di pagamento di un contributo asseritamente insoluto è dimostrata dalla quietanza rilasciata dall'Agenzia sul mod. f/24, dalle già citate norme sul riparto dei versamenti unitari e dai principi sulla delegazione di pagamento contenuti negli artt. 1268 e ss. c.c., che impongono di separare nettamente il rapporto di provvista tra contribuente ed Agenzia (che è delegata, mediante il mod. f/24, a versare gli dovuti ad Enti terzi) e quello di valuta tra contribuente ed INPS (a cui il pagamento è destinato, per il tramite dell'Agenzia).
Soccorre, nella vicenda, un'antica favola: l'INPS dice al contribuente: “Perché non mi versi i contributi”? Allorché il contribuente risponde che i contributi risultano versati mediante mod. f/24 quietanzato, l'INPS dice: “Il pagamento fatto all'Agenzia è irregolare”; e fingendo che l'irregolarità della compensazione equivale a mancata riscossione del contributo, intima un nuovo pagamento, sotto pena di mancato rilascio del DURC, in aggiunta al pagamento che l'Agenzia può legalmente pretendere con il sistema di riscossione previsto per gli atti di recupero. Sotto il profilo procedurale, ciò si traduce in una forma di sostituzione processuale, vietata dall'art. 81 c.p.c., ed attrae indebitamente nelle sfere di competenza del giudice ordinario, quale giudice del rapporto previdenziale, il rapporto tributario che intercorre tra contribuente ed Agenzia.
Considerazioni conclusive
La morale della favola è semplice. Non c'è dubbio che l'ordinamento debba fermamente contrastare – attraverso leggi razionali e controlli adeguati - le pratiche fraudolente, si possono annidare sotto le compensazioni indebite.
Il nuovo rimedio empiricamente escogitato dalla Pubblica Amministrazione appare tuttavia peggiore del male. Il cumulo tra il legittimo recupero del credito indebitamente utilizzato ed il recupero di un contributo asseritamente insoluto, con pretesa di conciliare due fattispecie tra loro inconciliabili e con indebita duplicazione dell'obbligazione debitoria, produce come effetto:
a) l'adozione di avvisi di irregolarità ideologicamente falsi (che prospettano una irregolarità contributiva di fatto inesistente);
b) l'utilizzo dei poteri di diniego del DURC al di fuori delle ipotesi consentite dalla legge;
c) la violazione degli obblighi di trasparenza, di chiarezza e di motivazione degli atti e di correttezza e buona fede affermati dallo Statuto del Contribuente, in attuazione dei principi costituzionali;
d) la mala fede processuale;
e) l'indebita traslazione delle questioni attinenti all'esistenza del credito di imposta nella giurisdizione del Giudice ordinario;
f) la violazione di tutte le altre norme processuali e sostanziali che si sono innanzi richiamate;
g) ed infine, sul piano sociologico, la sfiducia verso le Istituzioni.
È breve il passo verso la sostituzione del principio di legalità con quello di primazia delle prassi amministrative.