C'era una volta il telelavoro, ma c'era una volta anche il lavoro agile. Cosa significa?
Che se prima della pandemia ci si interrogava su analogie e differenze tra telelavoro e lavoro agile, oggi ci troviamo ad un punto totalmente nuovo per il quale non ha più senso parlare in modo tradizionale né di telelavoro né di lavoro agile.
Siamo ormai ad una svolta nell'organizzazione del lavoro che non ha precedenti, ma per la quale è necessario riportare il lavoro da remoto entro la cornice giuridica nella quale si è sviluppato partendo proprio dall'evoluzione che gli ultimi tre anni hanno determinato nell'uso di questo importante strumento di gestione del rapporto di lavoro.
Risulta dunque evidente che, con l'inizio dell'anno, è arrivato il momento di riportare lo smart working entro i confini della flessibilità spazio-temporale e del lavoro per obiettivi. Presupposti dai quali è nato questo istituto e dai quali ci si è purtroppo allontanati durante la pandemia.
I presupposti normativi
Ma facciamo un passo indietro.
Innanzitutto, è utile ricordare che la definizione del lavoro agile è contenuta nell'art. 18 della Legge 81/2017 il quale lo definisce uno strumento negoziale diretto ad “incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro consentendo di svolgere la prestazione lavorativa mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all'interno di locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
Significativo, da questo punto di vista, è l'inserimento del lavoro agile nell'ambito di una legge dedicata alle tutele per il lavoro autonomo. Segno di una scelta, da parte del legislatore, non certo casuale ma dettata dall'obiettivo di dare conto di una sorta di avvicinamento tra le caratteristiche proprie del lavoro autonomo – caratterizzato da una estrema flessibilità organizzativa – e il lavoro subordinato – ancora vincolato alla misurazione del tempo di lavoro quale parametro fisso di determinazione e di misurazione della retribuzione. In definitiva, laddove si sia in grado di inserire forme di misurazione della prestazione lavorativa subordinata in termini di obiettivi e di risultato (per fasi, cicli e obiettivi) è possibile introdurre meccanismi di gestione della prestazione lavorativa improntati alla flessibilità spazio-temporale.
Questo è lo spirito con cui è nato il lavoro agile, anche quale evoluzione del telelavoro – anche mobile – caratterizzato dalla predisposizione – a cura e spese di lavoro – di una postazione di lavoro di solito presso il domicilio del lavoratore, separata quindi dalla tradizionale sede contrattuale di lavoro.
Secondo questo spirito, prima della pandemia, lo strumento del lavoro agile era inteso come un mezzo per premiare l'autonomia e la responsabilità dei lavoratori in termini di obiettivi e di risultati.
Poi è arrivata l'infezione da virus COVID-19 e quello che si era sviluppato come strumento di gestione flessibile della prestazione lavoratori è divenuto l'unico strumento possibile per garantire la continuità del lavoro nella maggior parte dei settori produttivi (secondo l'Osservatorio del Politecnico di Milano si è passato nel volgere di poche settimane da circa 600.000 smart worker a quasi 7 milioni). Ma quello che abbiamo conosciuto durante la pandemia non era vero smart working, bensì una forma di telelavoro forzato esclusivamente domiciliare. Niente di più lontano dallo spirito originario della legge.
A pandemia finita e con l'inizio del nuovo anno siamo finalmente tornati ad uno smart working reale, caratterizzato innanzitutto dall'obbligatorietà dell'accordo individuale – importante strumento negoziale di regolazione della flessibilità spazio-temporale che caratterizza questo strumento di gestione del rapporto di lavoro – e, soprattutto dalla consapevolezza della sua utilità e rilevanza nella forma del lavoro ibrido. Del lavoro in pratica svolto parte in presenza e parte in remoto. Anche grandi aziende come Google, Apple, Microsoft così come molte grandi e piccole aziende a livello nazionale e a livello internazionale, si sono accorti dell'importanza di assicurare che il lavoro da remoto non fosse più la regola, perché il lavoro è fatto anche del valore delle relazioni e dei legami che si creano all'interno delle aziende attraverso la presenza e gli interscambi che in essa si creano.
Una riflessione è d'obbligo a questo punto, partendo proprio dal processo di evoluzione cui abbiamo assistito negli ultimi tre anni.
Come può evolvere l'istituto
Nel prossimo futuro, due ambiti avranno particolare rilevanza in chiave evolutiva.
Da un lato la valutazione della continuità, voluta dal legislatore, della protezione dei lavoratori fragili che è oggi possibile mantenere a lavorare – preferibilmente - in remoto e anche con carattere di continuità fino al 31 marzo (anche se, alla data di redazione della presente, è stata già preannunciata dal Ministero del Lavoro una futura proroga, contenuta in un emendamento al Senato dell'eterno “Milleproroghe”, al 30 giugno 2023”) se affetti dalle specifiche patologie indicate dalla legge (a partire dal 1° gennaio 2023 propriamente solo i lavoratori del settore pubblico e privato affetti dalle patologie individuate ai sensi dell'art. 17, c. 2 DL 221/2021 e DI 4 febbraio 2022 – art. 1, c. 306, Legge 197/2022).
Dall'altro, argomento trascurato, l'opportunità che in molti hanno visto per costruire delle carriere internazionali.
È il caso ad esempio dei “nomadi digitali”, di coloro che, per scelta, accettano lavori che consentano in prevalenza il lavoro da remoto e che diano pertanto la possibilità anche di viaggiare cambiando spesso residenza non solo in Italia ma soprattutto all'estero, in Europa e anche fuori dall'Europa. Tale tenenza si sta sviluppando soprattutto tra i giovani, ma coinvolge anche la mobilità dei lavoratori a livello internazionale, come testimoniato dalla normativa con la quale anche l'Italia si è dotata di strumenti per attrarre gli stranieri extracomunitari in possesso di qualifiche elevate nel nostro paese (art. 27 c. 1 sexies TU Immigrazione – D.Lgs. 286/98). Normativa che, per ora, risulta inattuata perché non è stato ancora adottato il decreto ministeriale che dovrà regolare la richiesta semplificata dello speciale permesso di lavoro che consentirà agli stranieri extraeuropei di stabilirsi a lavorare in Italia per un periodo massimo di un anno.
Si tratta tuttavia di una importante novità, seppure ancora a carattere sperimentale, ma anche di uno strumento da usare con grande cautela. È bene sottolineare come una prospettiva di mobilità spinta di questo tipo a livello internazionale potrebbe avere importanti implicazioni di natura previdenziale e fiscale cha, al momento, non sono state ancora del tutto esplorate e analizzate se non con qualche interpello dell'Agenzia delle Entrate.
Conclusioni
Una revisione della disciplina normativa di riferimento potrebbe essere quanto mai auspicabile ma, non di certo, di natura frettolosa ed inorganica. Appare evidente che serviranno regole che disciplinino non solo il significato del lavoro agile ma anche i suoi riflessi previdenziali e fiscali in un quadro di mobilità complessiva, anche oltralpe.
Forse bisognerebbe riconsegnare allo smart working quella previsione di “allentamento” del potere direttivo, che consenta al beneficiario una vera organizzazione della prestazione. Il tutto al fine di evitare che si associ, erroneamente, il lavoro agile al lavoro “da remoto” (con tutte le implicazioni che questo comporterà).