lunedì 06/02/2023 • 06:00
Mentre per i coniugi in comunione legale scatta il concetto di “residenza della famiglia”, che garantisce i benefici anche se uno dei due non traferisce la residenza nell'immobile agevolato, in caso di separazione dei beni il coniuge che non si trasferisce perde l'agevolazione.
redazione Memento
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La condizione affinché il coniuge non residente possa comunque godere dei benefici prima casa è che l'acquisto dell'immobile ricada nella comunione legale, solo in tal caso viene in rilievo il concetto di "residenza della famiglia". Nella diversa ipotesi di acquisto in separazione dei beni, il concetto di “residenza della famiglia” non può operare e, pertanto, il mancato trasferimento del coniuge entro i 18 mesi dal rogito comporta la decadenza dai benefici.
È quanto emerge dall'ordinanza di Cassazione n. 3123 dello scorso 2 febbraio in materia di decadenza dalla agevolazione prima casa per mancato trasferimento della residenza.
Il caso di specie riguarda un immobile acquistato da un'intera famiglia: i coniugi sono titolari del diritto di abitazione, ciascuno per il 50% indiviso, e i due figli della nuda proprietà, ancora ciascuno per il 50% indiviso. A seguito del mancato trasferimento della residenza nel comune dell'immobile del solo marito, entro i 18 mesi dal rogito, le Entrate recuperano a tassazione il maggior importo per IVA all'aliquota del 10%. Presentato ricorso, i giudici tributari confermano la decadenza dall'agevolazione per il marito.
La decisione della commissione regionale viene ora confermata anche dalla Cassazione che estende al caso quanto già affermato in passato: “in tema di imposte di registro e dei relativi benefici per l'acquisto della prima casa ai fini della fruizione degli stessi, il requisito della residenza nel Comune in cui è ubicato l'immobile va riferito alla famiglia, con la conseguenza che, in caso di comunione lega/e tra coniugi, quel che rileva è che l'immobile acquistato sia destinato a residenza familiare, mentre non assume rilievo in contrario la circostanza che uno dei coniugi non abbia la residenza anagrafica in tale Comune, e ciò in ogni ipotesi in cui il bene sia divenuto oggetto della comunione ai sensi dell'art. 177 c.c., quindi sia in caso di acquisto separato che in caso di acquisto congiunto del bene stesso" (Cass. n. 22557/2022; conf. Cass. n. 16604/2018; Cass. n. 13335/2016)”.
Il principio, per gli Ermellini, deve essere applicato anche al caso di specie a nulla rilevando che i coniugi della fattispecie abbiano acquistato il solo diritto di abitazione. Nel ricorso, invece, la difesa si fonda proprio sull'argomento per cui il diritto acquistato è quello di abitazione ex art. 1022 c.c., a mente del quale il titolare "può abitarla limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia". Questo, a parere del marito, unitamente al contemporaneo acquisto dello stesso diritto da parte della moglie, accomunerebbe l'ipotesi a quella dell'acquisto in comunione legale, perché essa avvenne senz'altro in regime di separazione, ma nella sostanza con una originaria destinazione univoca e complessiva per la destinazione dell'abitazione a residenza familiare (completata anche dall'acquisto del diritto di usufrutto da parte dei figli).
La tesi, però, non coglie nel segno. Per la Cassazione l'acquisto del diritto assume una connotazione "egoistica" (o "individualistica") in capo a ciascuno dei coniugi, e i bisogni della famiglia non sono riferiti al diritto del nucleo familiare in quanto tale: a quest'ultimo si attribuisce rilevanza in via meramente indiretta, cioè per il tramite del titolare del diritto di abitazione, che resta il "protagonista" della fattispecie.
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