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venerdì 13/01/2023 • 06:00

Fisco Le criticità della legge di bilancio 2023

Le cripto e la pretesa di assimilarle a valute estere e di inserirle nell’RW

La Legge di bilancio 2023 che contiene il regime tributario delle cryptovalute riflette la confusione sociale sulla natura di questi beni. Seppur condivisibile l’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate in merito alla natura di redditi diversi delle plusvalenze realizzate sulle cryptovalute, appare fuori luogo l’assimilazione alle valute estere e l’obbligo di inserimento nel quadro RW.

di Raffaello Lupi - Professore ordinario di diritto tributario all’Università di Roma “Tor Vergata”

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  • Tempo di lettura 8 min.
  • Ascolta la news 5:03

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Il bitcoin come bene visibile solo all'interno della blockchain

La disposizione della legge finanziaria sui bitcoin e gli obblighi di monitoraggio fiscale (quadro RW) nonché il regime delle eventuali plusvalenze su tali cripto attività rappresentano uno dei tanti casi di interventismo legislativo, corrispondente alla sopravvalutazione della legislazione nella mentalità degli operatori del settore. Sempre più spesso, davanti a problemi di cui neppure si capiscono i termini, si invoca l'intervento del legislatore, come se quest'ultimo sapesse tutto per definizione. Invece anche il legislatore è impotente davanti a fenomeni, come i bitcoin e la relativa blockchain, socialmente incompresi nella loro natura sostanziale.

Mi chiedo altresì quanti tra coloro che auspicavano un intervento legislativo chiarificatore in materia di criptovalute possedessero effettivamente quelle che recentemente Nassim Thaleb ha chiamato strumento per l'individuazione di sprovveduti (detector of imbecils). Tra gli sprovveduti inserirei anche quanti avevano richiesto all'Agenzia delle entrate le interpretazioni, citate al paragrafo 2, sperando di ottenere risposte diverse dalla rilevanza come redditi diversi delle plusvalenze su tali beni.

Anche a proposito delle criptovalute il punto di partenza per fare chiarezza non riguarda certo le norme applicabili o l'invocazione al legislatore perché introduca norme, come se esse avessero magicamente il potere di chiarire concetti ancora misteriosi nel mondo reale. La domanda è invece quella che ci si dovrebbe sempre porre, cioè di che cosa stiamo parlando, senza fantasticare di realtà virtuale, metaverso avatar e simili.

La risposta sta nella Blockchain, cioè la catena di computers collegati tra di loro che, attraverso codici informatici validabili in modo oggettivo e non manipolabile dalla catena stessa, assicura determinate informazioni, compreso il soggetto cui appartengono, dandogli la possibilità di trasferirle ad altri soggetti, secondo criteri nello stesso modo validati.

Ne discende che quello che si verifica all'interno della blockchain è assolutamente invisibile dal fisco o da qualunque altra autorità pubblica, la quale può solo accedere ai dati di ingresso e di uscita; si tratta cioè del denaro di Tizio che viene bonificato a Caio, e che Tizio dichiara di essere destinato a finanziare il parallelo acquisto di una certa quantità di bitcoin nel proprio c.d. wallet della Blockchain.

Analoga evidenza c'è nel procedimento inverso di uscita, dove nel mondo della moneta ordinaria giungono somme derivanti da attività di segno inverso verificatesi nella blockchain. Il fisco è insomma in grado di vedere solo gli euro che si immergono nel mondo Crypto e quelli che riemergono, mentre non vede le transazioni interne al mondo Crypto. La titolarità del wallet non è infatti dimostrabile in modi diversi dal possesso di una chiave numerico-informatica, non modificabile, che può essere utilizzata da chiunque la conosca, anche per disporre della criptovaluta. Tanto è vero che, se il titolare della chiave informatica dovesse morire improvvisamente in un incidente, o smarrire la memoria, senza aver - per la suddetta intuitiva prudenza - condiviso la chiave con alcuno, la criptoattività sarebbe condannata a diventare un “bene senza padrone”.

Nella blockchain manca quindi il sostituto d'imposta, da cui il fisco è già oggi, nel mondo dei redditi finanziari, completamente dipendente.

In buona misura, da quello che abbiamo appena detto, la blockchain rende il fisco cieco, privo di interlocutori cui rivolgere domande e imporre sanzioni in caso di mancata collaborazione. Questo semplicemente perché manca un interlocutore come siamo abituati a concepirlo, con la nostra idea di denaro, come debito di qualcuno, registrato nei conti di qualcun altro e garantito da una pubblica autorità cui rivolgersi in caso di inadempimento del debitore.

Nulla di tutto questo esiste per i bitcoin, neppure per la malaugurata ipotesi che la controparte che ce li ha offerti, dopo aver ricevuto il pagamento, si sottragga ai propri obblighi di consegnare le chiavi identificative sul suddetto wallet del mondo virtuale delle Crypto.

Non so bene come rispondere, forse che il mondo Crypto si regge esclusivamente sulla fiducia, senza bisogno di tribunali e poliziotti, al che verrebbe da osservare l'estraneità del fisco a tale universo parallelo. La soluzione, de iure condendo, avrebbe dovuto quindi essere conforme ad uno degli adagi di chi scrive, che rappresenta una variazione sul tema de le imposte si chiamano così perché qualcuno le impone, e precisamente “le imposte si pagano su quello che si vede”. Avrebbe quindi dovuto trattarsi delle somme “immerse” nella blockchain, che appunto “si vedono all'esterno”, e di quelle che ne riemergono. Quando cioè Tizio immerge, a suo nome, un importo nel mondo Crypto, effettua un investimento in una realtà virtuale fiscalmente invisibile e indimostrabile. L'unico momento di visibilità fiscale è la riemersione e un regime ipotizzabile avrebbe potuto essere la tassazione, come plusvalenza finanziaria, della somma riemersa, eccedente quella immersa. Non sono informazioni molto diverse da quelle di cui si faceva forte la voluntary disclosure, dove le indagini potevano essere innescate solo attraverso il nome del titolare italiano nello Stato estero di investimento. C'è solo una piccola differenza teorica, cioè la possibilità che il fisco italiano ottenesse medio tempore tali generalità dallo Stato estero in cui era detenuto il deposito bancario; è però un'eventualità secondaria rispetto a quella del rientro, in cui ci si sarebbe dovuto di nuovo palesare al fisco italiano come titolari dei relativi fondi.

Luci e ombre delle risposte dell'Agenzia

È quest'eventualità, cioè la prospettiva della riemersione, ad aver probabilmente indotto alcuni investitori in bitcoin a formulare all'Agenzia delle Entrate i pregressi interpelli, cui è stato risposto nei modi recepiti dalla recente legge finanziaria (Risp. AE 24 novembre 2021 n. 788 richiamata anche dalla recente Risp. AE 26 agosto 2022 n. 437, Ris. AE 2 settembre 2016 n. 72/E e DRE Liguria 9 febbraio 2018 n. 903-47).

Ora, se si esamina la natura del bitcoin, nonché le finalità del suo acquisto, si vede quale diversa risposta avrebbe potuto dare l'Agenzia delle entrate. Non si tratta infatti di un bene rifugio, come un dipinto, una scultura e neppure un diamante.

Il paragone più calzante è infatti l'oro, oggetto di costanti quotazioni sui mercati, e facilmente liquidabile, con l'aggiunta di una certificazione di appartenenza inequivocabile nel mondo crypto, rappresentata dalla Blockchain.

Non mi voglio dilungare qui sull'analogia nel diritto tributario, rispetto alla regolamentazione dell'oro, o sull'interpretazione delle amplissime formule sui redditi diversi.

Senza scomodare Griziotti e la Scuola Pavese sull'interpretazione funzionale del diritto tributario, mi pare che l'imponibilità dei differenziali realizzati sui bitcoin non avesse particolari argomenti per essere evitata.

Si può invece seriamente discutere sull'obbligo di indicazione nel quadro RW, vista la relativa ratio, relativa ad un ordinamento statale “estero”, ipoteticamente controllabile, profondamente diversa dalla blockchain realtà virtuale incontrollabile, come sopra descritta.

La disposizione della legge finanziaria ha evitato l'interpretazione autentica con effetto retroattivo, e ci sono quindi margini interpretativi notevoli per sostenere le tesi precedenti. Ciò peraltro nella misura in cui sono sostenibili, cosa che escluderei per l'irrilevanza tributaria delle plusvalenze realizzate sui bitcoin. La sanatoria rappresenta quindi un'opportunità offerta a chi voglia evitare rischi “pro bono pacis”, in un'ottica collaborativa, di cui ognuno valuterà la convenienza anche in relazione alle circostanze dell'investimento, al suo importo e alle altre caratteristiche, che posso solo immaginare, essendomi sempre ben guardato dall'ipotizzare l'acquisto di siffatti beni.

Mi pare comunque fantascienza ipotizzare indagini fiscali a 360 gradi sull'argomento dei detentori di criptovalute, essendo più probabile il loro uso da parte del contribuente come strategia difensiva per spiegare la propria situazione patrimoniale. In proposito la sanatoria delle plusvalenze realizzate sui bitcoin si presta oggettivamente a camuffare da plusvalenze su bitcoin somme riemerse ad altro titolo, anche frutto di evasioni fiscali, e che non erano mai in precedenza entrate a nome del contribuente nel mondo Crypto. C'è una qualche assonanza con chi scudava capitali esteri che non possedeva, ma che gli venivano momentaneamente anticipati da terzi, per sanare evasioni fiscali di altro genere.

Il fenomeno potrebbe essere amplificato dall'impossibilità del fisco di tracciare i movimenti all'interno del mondo crypto. L'unica difesa degli uffici tributari contro sanatorie di comodo è pretendere la prova, possibile in base a quanto sopra rilevato, della data di passaggio dal mondo finanziario ordinario a quello Crypto. Inoltre dovrebbe anche essere possibile una stampa del wallet, accessibile attraverso la chiave informatica suddetta, che potrebbe essere stampato e mostrato all'ufficio tributario senza ovviamente divulgare tale chiave. Tutto affidato alla buona volontà del contribuente, insomma, senza altri tipi di controlli.

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di Maurizio Maraglino Misciagna - Dottore commercialista e revisore legale

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