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mercoledì 11/01/2023 • 06:00

Lavoro Licenziamento disciplinare

Quando la critica verso l'azienda supera i limiti a tutela della dignità della persona

Il Tribunale di Milano, con ordinanza n. 7646 del 13 dicembre 2022, ha dichiarato legittimo il licenziamento di un lavoratore per aver inviato, via e-mail e via WhatsApp, a esponenti aziendali comunicazioni su comportamenti illeciti dei suoi colleghi. La critica e le accuse hanno trasformato l’esercizio lecito del diritto di critica in un illecito disciplinare.

di Elena Cannone - Avvocato

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  • Tempo di lettura 6 min.
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Il caso

Il caso in esame prende le mosse dal procedimento disciplinare avviato da una società nei confronti di un proprio lavoratore (sospeso cautelarmente dal servizio) per aver inviato, via e-mail e via WhatsApp, a esponenti aziendali comunicazioni che “hanno creato (ndr avevano creato) disagio e confusione all'interno della (…) impresa”. Era stata contestata al lavoratore “la modalità abnorme e offensiva con la quale Lei ha screditato (ndr lo stesso aveva screditato) i suoi colleghi” avendo anche “utilizzato indebitamente e impropriamente la posta elettronica aziendale violando al contempo i noti principi di continenza, rispetto e appropriatezza e le più elementari norme del vivere civile, applicabili a tutti i lavoratori e vieppiù ai Responsabili di Servizio (ndr ruolo ricoperto dal lavoratore), ai quali viene richiesta una diligenza e correttezza ancora più pregnanti”. All'esito del procedimento, la società aveva proceduto con il suo licenziamento in tronco.

Il lavoratore adiva così il Tribunale lamentando, (i) in via principale, la natura ritorsiva del licenziamento, in quanto intimatogli dopo aver messo i vertici al corrente “della situazione creatasi sul luogo di lavoro” (ii) in subordine, l'insussistenza dei fatti posti a fondamento, in quanto la condotta addebitata non avrebbe avuto carattere di illiceità, e (ii) in ulteriore subordine, la sua derubricazione a giustificato motivo soggettivo. Il lavoratore chiedeva che venissero, per l'effetto, applicate le tutele previste dall'art. 18 L. n. 300/1970, con le conseguenze in materia di reintegrazione nel posto di lavoro e risarcimento del danno.

La decisione del Tribunale

Il Tribunale, investito della causa, ha, innanzitutto, rammentato che il licenziamento per ritorsione “costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (…), con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l'unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova (…)” (cfr. sentenza Cass n. 24648/2015; sentenza Cass. n. 17087/2011). Tale onere può essere assolto tramite la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza l'intento della rappresaglia (cfr. sentenza Cass. nn. 10047/2004 e 18283/2010).

La nullità deve, quindi, essere esclusa se con il motivo illecito concorre un motivo lecito, come una giusta causa o un giustificato motivo. Ne consegue, a parere del Tribunale, che nel caso di specie, per “valutare la ritorsività del licenziamento è (…) in primo luogo indispensabile procedere all'accertamento relativo alla sussistenza della giusta causa (…) addotta dal datore di lavoro (…)”.

Orbene, secondo la difesa, il lavoratore aveva esercitato legittimamente il proprio diritto di critica nell'ambito del rapporto di lavoro garantito dall'art. 21 Cost.; il suo unico intento era stato quello di chiedere un aiuto per le pressanti pressioni psicologiche nonché per interrompere gli atteggiamenti persecutori dei suoi superiori.

Ad avviso del Tribunale è documentale che il lavoratore avesse attribuito ad essi comportamenti e qualità disonorevoli, ivi incluse condotte integranti addirittura ipotesi di reato, lesivi del loro onore e della loro reputazione, senza fornire alcuna idonea prova.

Sul punto il Tribunale ha richiamato precedenti giurisprudenziali secondo i quali il lavoratore ha il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero sul luogo di lavoro, formulando anche espressioni critiche verso il datore di lavoro, benché il vincolo di subordinazione gli imponga obblighi di fedeltà e collaborazione. Questo diritto deve, però, contemperarsi con altri diritti altrettanto costituzionalmente garantiti, tra cui i diritti della personalità, all'onore ed alla reputazione.

Pertanto, la critica, se si sostanza nell'attribuzione di condotte che si assumono come storicamente verificatesi, i fatti narrati devono innanzitutto corrispondere a verità, “sia pure non assoluta ma corrispondente ad un prudente apprezzamento soggettivo di chi dichiara gli stessi come veri”.

Inoltre, occorre verificare che la critica venga esercitata con modalità espressive rispettose di canoni di correttezza, misura e civile rispetto della dignità altrui (criterio della continenza formale) e nel limite della pertinenza, intesa come rispondenza della stessa ad un interesse meritevole di confronto con il bene suscettibile della lesione.

Laddove, anche uno solo dei predetti limiti venga travalicato, la critica rivolta dal lavoratore al datore di lavoro, idonea a ledere il suo onore, la sua reputazione e il suo decoro, può configurare un illecito, consentendone il licenziamento ove esso “risulti incompatibile con l'elemento fiduciario necessario per la prosecuzione del rapporto” (cfr per tutte Cass. n. 1379/2019, Cass. 1173/1986).

Applicando proprio questi principi al caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che “la critica esercitata non può, come asserisce il lavoratore, ricondursi ad una mera espressione di una opinione, che per la sua natura meramente oggettiva, avrebbe carattere congiunturale”.

Pertanto, la critica e le accuse mosse, travalicando il limite dell'onore, della reputazione e del decoro del datore di lavoro, nella persona dei suoi esponenti e rappresentanti, hanno trasformato l'esercizio lecito di un diritto (alias il diritto di critica) in una condotta idonea a configurare un illecito disciplinare. E nell'intimargli il licenziamento per giusta causa, la società, a parere del Tribunale, ha fatto corretta applicazione del principio di gradualità e proporzionalità della sanzione disciplinare. Ciò in quanto, come statuito anche dalla giurisprudenza di legittimità, “in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fini del giudizio di proporzionalità, l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza” (cfr. Cass. n. 2013/2012, Cass. n. 35/2011, n. 16283/2011, n. 14586/2009).

In considerazione di tutto quanto sopra esposto, il Tribunale ha rigettato integralmente il ricorso e condannato il lavoratore alle spese di giudizio.

Fonte: Trib. Milano 13 dicembre 2022

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