martedì 03/01/2023 • 06:00
La sentenza della Cassazione ha ritenuto lecita la riapertura del procedimento disciplinare da parte dell’Ente se - all’esito del procedimento disciplinare concluso con sanzione conservativa - risulti dalla sentenza penale che la condotta avrebbe giustificato il licenziamento.
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Nell'ordinamento giuslavoristico nazionale vige il cosiddetto principio di consunzione del potere disciplinare del datore di lavoro. Con tale espressione si suole intendere la regola giuridica per cui l'avvenuta contestazione di un fatto ed irrogazione di una sanzione disciplinare impediscono al datore di lavoro la possibilità di “tornare sui propri passi” per contestare nuovamente – seppure in chiave differente – tali addebiti. Tale principio trova applicazione anche nel caso in cui l'avvenuta irrogazione al dipendente di una sanzione conservativa per condotte aventi rilevanza penale, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di condanna per i medesimi fatti, avrebbe potuto in astratto giustificare il licenziamento disciplinare.
L'orientamento nazionale trova, peraltro, riscontro in quanto affermato dalla Corte EDU, nella sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri c. Italia, la quale ha sancito la portata generale, estesa a tutti i rami del diritto punitivo, del divieto di ne bis in idem (Cass. 30 ottobre 2018 n. 27657).
Il principio di cui sopra trova generale applicazione anche nell'ambito del Pubblico Impiego privatizzato; applicazione che, tuttavia, incontra diverse eccezioni normativamente richiamate dal D.Lgs. 165/2001.
Una fra dette eccezioni viene affrontata dalla sentenza della Cass. 13 dicembre 2022 n. 36456, che si commenta, laddove la stessa ha ritenuto lecita la riapertura del procedimento disciplinare da parte dell'Ente se - all'esito del procedimento disciplinare conclusosi con sanzione conservativa - risulti dalla sentenza penale che la condotta avrebbe giustificato il licenziamento (art. 55 ter D.Lgs. 165/2001). Il tutto ritenendo non leso il principio del ne bis in idem.
Il caso giunto al vaglio della Cassazione
La vicenda in esame trae origine dal licenziamento per giusta causa intimato ad un impiegato che – per quanto qui di ragione – aveva emesso tre mendati di pagamento in suo favore da parte dell'Ente Territoriale, in ragione della di lui qualità di Responsabile dell'Area Economico-Finanziaria del datore di lavoro.
Il procedimento disciplinare era stato inizialmente definito con applicazione di una sanzione conservativa, ma successivamente riaperto a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di condanna penale per fatti di peculato.
Da ultimo la Corte d'Appello di Brescia riformava la decisione con la quale il Tribunale di Bergamo aveva annullato il licenziamento con preavviso intimato, ritenendo al contrario giustificato il recesso datoriale.
Proponeva ricorso per Cassazione il dipendente, mentre l'Ente Territoriale resisteva con controricorso.
I principi di diritto espressi dalla Suprema Corte
La sentenza in commento ha confermato la pronuncia della Corte Territoriale motivando che sarebbe consentito dal dettato dell'art. 55 ter D.Lgs. 165/2001 riaprire il procedimento disciplinare laddove il dipendente – precedentemente sanzionato con misura conservativa – fosse stato condannato con sentenza penale irrevocabile per una condotta che avrebbe comportato il licenziamento.
Infatti, la predetta disposizione prevede che “Se il procedimento disciplinare si conclude con l'archiviazione ed il processo penale con una sentenza irrevocabile di condanna, l'autorità competente riapre il procedimento disciplinare per adeguare le determinazioni conclusive all'esito del giudizio penale. Il procedimento disciplinare è riaperto, altresì, se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa”.
Presupposto della riapertura è, annota la Corte, non unicamente la mera circostanza della pronuncia definitiva di condanna in sede penale, ma anche l'avvenuta irrogazione di una sanzione differente dal licenziamento in un'ipotesi nella quale siffatta sanzione era, al contrario, prevista.
La Cassazione precisa, dunque, che “l'art. 55 ter, comma 3, seconda parte, del d.lgs. n. 165 del 2001 è, in quest'ottica, disposizione eccezionale, che introduce un sistema alternativo rispetto a quello privatistico perfettamente giustificato alla luce della particolare finalizzazione dell'azione pubblica e consentito in presenza di situazioni oggetto di specifica previsione normativa”.
Il tutto derogando in via speciale al principio del ne bis in idem sostanziale previsto dall'ordinamento al fine di adeguare, in ragione delle peculiari esigenze pubblicistiche, l'esito disciplinare, in melius o in peius, alla statuizione penale (Cass. 23 settembre 2021 n. 25901). Ed è tale ratio, unitamente alla differenza ontologica fra sanzione disciplinare e sanzione penale ad impedire che trovi applicazione il generale ed inderogabile divieto di ne bis in idem processuale sancito dalla Corte EDU nella celebre pronuncia dell'8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi.
Invero, non potendosi concludere che la sanzione disciplinare abbia natura sostanzialmente penale, né potendosi ritenere che fra i due procedimenti sussista una connessione sufficiente che renda i due procedimenti aspetti di un'unica risposta integrata dell'ordinamento contro il medesimo fatto illecito.
Fonte: Cass. 13 dicembre 2022 n. 36456
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Paolo Patrizio
- Avvocato - Professore - Università internazionale della Pace delle Nazioni UniteRimani aggiornato sulle ultime notizie di fisco, lavoro, contabilità, impresa, finanziamenti, professioni e innovazione
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