lunedì 19/12/2022 • 06:00
Con il pregevole Documento di ricerca del 14 dicembre scorso, la Fondazione nazionale dei Commercialisti si sofferma sulla novella legislativa sull’onere della prova, contenuta nella recente riforma del processo tributario, fornendo tanto un’analisi puntuale quanto spunti di riflessione in ordine alla concreta ricaduto dell’istituto nell’attività giurisdizionale.
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L'onere della prova per il Fisco
La lente del Consiglio dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, per il tramite della propria Fondazione, si posa sul comma 5-bis dell'art. 7 D.Lgs. 546/92, recentemente introdotto dalla L.130/2022.
Come noto, e più volte oggetto di commento del Quotidiano, la disposizione contempla, a mio parere con un drafting perfettibile, il dovere del giudice tributario di annullare l'atto impositivo laddove il fisco non sia riuscito a provare in giudizio le violazioni contestate con l'atto impositivo.
Compiuta la disamina circa la novella e lo stato dell'arte riguardo la “tradizionale” ripartizione della prova, imperniata – e anche questo è un mio parere - sull'antinomica dicotomia tra i componenti positivi, da provare a cura del fisco, e quelli negativi, il cui onere graverebbe sul contribuente, seppure cautamente il documento si spinge a ipotizzare il venire meno di questa impostazione.
In sostanza, secondo la recente posizione giurisprudenziale della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Siracusa richiamata dalla Fondazione, la pretesa rappresenterebbe un unicum derivante dalla contrapposizione tra costi e ricavi, tale da ritenere che incomba sempre e comunque sull'Ufficio l'onere di provare i presupposti della stessa (ricalcata su altrettanto recenti posizioni della migliore dottrina tributaria, in specie, Pasquale Russo, richiamate dal documento in esame).
L'aspetto del documento più interessante, a parere di chi scrive, si rivela quando gli estensori previamente negando con decisione “che l'onere probatorio si “trasferisca” tout court dalla fase istruttoria a quella processuale, a tal punto da “esonerare” gli uffici dal “preoccuparsene” fin dalla fase accertativa vera e propria”, attesa la sostanziale soggettività attorea dell'ente impositore, si interrogano su eventuali ricadute del nuovo comma 5-bis sull'attività endoprocedimentale propedeutica all'emissione dell'avviso di accertamento, stante il noto incipit secondo cui “l'amministrazione finanziaria prova in giudizio le violazioni contestate con l'atto impugnato”.
Ebbene, condivisibilmente la Fondazione afferma che l'onere probatorio gravi sul fisco già nella fase istruttoria, in ragione della circostanza che l'atto impositivo non fa altro che “contenere” l'esito della formazione della prova nella fase istruttoria e, perciò, “la prova della fondatezza della pretesa precede l'instaurazione del giudizio”.
Il documento, però, a questo punto non “affonda il colpo” come avrebbe potuto fare e dando dimostrazione che, probabilmente e proprio avendo come riferimento la fase endoprocedimentale, la novella legislativa investe, e anche considerevolmente, la “motivazione” dell'atto.
Infatti, se da un lato la Fondazione si preoccupa giustamente che non venga “svuotata” la fase istruttoria che precede l'accertamento – e a mio avviso senza che a nulla rilevi la “partecipazione” o meno del contribuente – dall'altro non si spinge ad affermare che se gli uffici non si “preoccupano” dell'onere probatorio ex ante la genesi dell'accertamento la questione dirimente per il dispiegamento della difesa diviene, a quel punto, la motivazione dell'atto e il relativo vizio.
In questi termini, la doglianza del contribuente che il mancato sostenimento dell'onere della prova ha “viziato” l'atto sotto il profilo motivazionale potrebbe anche delimitare il raggio d'azione del giudice tributario, molto spesso “interventista” proprio su questo fronte.
Se così fosse, la portata della norma sarebbe davvero rivoluzionaria.
Fonte: Documento di ricerca CNDCEC 14 dicembre 2022
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