martedì 06/12/2022 • 06:00
La Cassazione afferma che può considerarsi legittimo un accordo tra le parti di modifica del CCNL originariamente scelto, con conseguente modifica peggiorativa del trattamento retributivo, fatti salvi i c.d. diritti quesiti. Tale accordo rientra nella libera autonomia delle parti e non necessita della formalizzazione in sede protetta.
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La Corte d’appello territorialmente competente, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva la domanda presentata da una giornalista pubblicista, dipendente di una emittente radiofonica dal 1993 con mansioni di “radio report”. In particolare, la giornalista aveva eccepito l’inefficacia e l’illiceità del passaggio dal CCNL scelto in fase di assunzione, quello giornalistico, al CCNL Radiotelevisioni private a seguito di accordo negoziale con la datrice di lavoro. Cambiamento questo che aveva comportato un mutamento di inquadramento e una riduzione della sua retribuzione, pretendendo quindi il pagamento delle differenze retributive spettanti in ragione proprio della perdurante applicabilità al suo rapporto del CCNL giornalistico.
Nel respingere la domanda, la Corte d’appello condannava la giornalista alla restituzione alla datrice di lavoro della somma, calcolata al lordo, oltre accessori, corrispostale in esecuzione della sentenza di primo grado. La lavoratrice decideva così di ricorrere in cassazione.
La soluzione della Corte di Cassazione
Investita della causa, la Corte di Cassazione ha sottolineato che l’applicabilità al rapporto di lavoro in esame del CCNL Radiotelevisioni è “frutto della comune volontà negoziale delle parti che hanno inteso modificare il contratto individuale con riferimento alla fonte collettiva applicabile al rapporto, fonte in precedenza costituita dal CCNL giornalisti”.
Ad avviso della Corte, questa modifica - poiché espressione della libera esplicazione dell’autonomia privata ai sensi dell’art. 1322 c.c. - era vincolante per le parti, in assenza di vizi della volontà.
Inoltre, la stessa ha evidenziato, richiamando un suo costante orientamento, che il contratto collettivo costituisce fonte eteronoma di integrazione del contratto individuale e la sostituzione in via negoziale di una fonte collettiva ad un’altra non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 2077 c.c. (invocato dalla giornalista) in tema di efficacia del contratto collettivo sul contratto individuale. Ne consegue che, in caso di successione tra contratti collettivi, le modifiche “in peius” per il lavoratore sono ammissibili, fatti salvi i c.d. diritti quesiti.
In sostanza, il lavoratore non può pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva che non esiste più. Le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contratto individuale ma costituiscono una fonte eteronoma di regolamento concorrente con la fonte individuale. Pertanto, le precedenti disposizioni del contratto collettivo non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole.
Alla luce di questi principi, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la giornalista non avrebbe potuto far valere il principio della irriducibilità della retribuzione pretendendo il trattamento retributivo previsto dai CCNL dei giornalisti succedutisi nel tempo. Tutt’al più la stessa avrebbe potuto richiedere la cristallizzazione della retribuzione percepita all’atto della modifica contrattuale e rivendicare differenze retributive a titolo di superminimo.
Inoltre, ad avviso della Corte di Cassazione, l’opzione negoziale del lavoratore, che si esercita in favore di questo o quell’ambito negoziale, non è qualificabile come giudizio abdicativo. Ciò, in quanto non incide su pregresse e specifiche situazioni di vantaggio, già intestategli, quali i diritti derivanti dal contratto collettivo sostituito per il tempo della sua vigenza. La modifica contrattuale in questione non necessita, quindi, della sua formalizzazione in sede protetta ai sensi dell’art. 2113 c.c.
Non da ultimo, la Corte di Cassazione ha precisato che, in caso di riforma, totale o parziale, della sentenza di condanna al pagamento di somme in favore del lavoratore, il datore di lavoro ha diritto a ripetere quanto il lavoratore abbia effettivamente percepito e non può pretendere la ripetizione di importi al lordo delle ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del lavoratore.
Fonte: Cass. 21 ottobre 2022, n. 31148
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