lunedì 07/11/2022 • 06:00
Se il cambio della posizione lavorativa è stato determinato dai processi di riorganizzazione dell'intera azienda, lo straining deve essere escluso: manca la necessaria adozione di iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante condizioni lavorative “stressogene”.
redazione Memento
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Il c.d. straining è ravvisabile quando il datore di lavoro adotti iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante condizioni lavorative “stressogene” e non ove la situazione di amarezza, determinata ed inasprita dal cambio della posizione lavorativa, sia determinata dai processi di riorganizzazione e ristrutturazione che abbiano coinvolto l'intera azienda.
Il principio, già espresso in passato dalla Corte di Cassazione, è stato ribadito dagli Ermellini in una causa intentata da una dipendente comunale che lamentava di essere stata destinataria di condotte persecutorie da parte dell'ente datoriale e di aver subito un demansionamento perché l'incarico di responsabile del settore Bilancio, a lei in origine assegnato, era stato dato ad altro dipendente.
Le doglianze della donna venivano respinte sia in primo che in secondo grado: secondo i giudici di merito, infatti, la stessa ricorrente aveva ammesso che la revoca del suo incarico era conseguita ad una riorganizzazione dell'ente e dei relativi responsabili, e, dunque, si trattava di una revoca legittima e non si ravvisava alcuna ipotesi di mobbing.
Proposto ricorso in Cassazione, la dipendente sosteneva che la corte territoriale avrebbe dovuto comunque riconoscere, pur negando la ricorrenza del mobbing, la sussistenza di una condotta di sostanziale esautoramento dalle sue mansioni. In pratica, sarebbe stato onere del giudice di appello, esclusa la presenza di un intento persecutorio, valutare se, in base agli elementi dedotti, altre circostanze consentissero di risalire in via presuntiva al fatto ignoto della presenza di un più tenue danno, come quello dipeso dallo straining.
La tesi della donna, però, non convince gli Ermellini, secondo i quali tale riqualificazione della domanda non sarebbe stata possibile perché la Corte d'appello, a prescindere da ogni considerazione in ordine all'intento persecutorio, ha escluso anche l'illegittimità delle condotte che, secondo la prospettazione della donna, avrebbero integrato l'elemento oggettivo dell'illecito contestato. Non da ultimo, per la giurisprudenza di legittimità, non può parlarsi di straining quando la situazione di amarezza, determinata ed inasprita dal cambio della posizione lavorativa, sia determinata dai processi di riorganizzazione e ristrutturazione che abbiano coinvolto l'intera azienda. Per ravvisare il danno è, infatti, necessario che il datore di lavoro adotti iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante condizioni lavorative “stressogene”.
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