martedì 01/11/2022 • 06:00
La Cassazione, con la pronuncia n. 27683 del 21 settembre 2022, ritiene giustificato il licenziamento in tronco del furbetto del cartellino indipendentemente dalla gravità della condotta e del danno arrecato, in quanto a venire posta in dubbio è la correttezza delle prestazioni future del dipendente.
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Come noto, nell'ambito del Diritto del Lavoro, la sussistenza del vincolo fiduciario è condizione necessaria, al fine della permanenza del rapporto di lavoro. Nella fase di svolgimento del rapporto il rispetto del vincolo fiduciario si articola dal lato del lavoratore nel rispetto dei doveri di cui agli articoli 2104 e 2015 c.c.
Innanzitutto, il lavoratore deve svolgere la prestazione secondo diligenza, individuata dalla dottrina come modello di condotta che il debitore deve tenere per soddisfare il diritto di credito e che concorre a definire l'oggetto della prestazione. quanto all'obbligo di fedeltà di cui all'articolo 2105 c.c. è da intendersi nel senso quale divieto di trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con il datore di lavoro, e di divulgare notizie attinenti all'organizzazione produttiva dell'impresa la medesima norma deve anche leggersi in senso più ampio quale dovere generico del dipendente di astenersi da tutti quei comportamenti che minano gli interessi del datore, ossia l'organizzazione dell'impresa.
Quanto alla fase di cessazione del rapporto di lavoro, la giurisprudenza ha inquadrato - il rapporto tra vincolo fiduciario, o meglio la sua lesione, e il conseguente recesso da parte del datore – nei seguenti termini: sussiste la giusta causa di licenziamento, qualora la violazione degli obblighi da parte del lavoratore assuma il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto, tale da ledere in via irreversibile la fiducia intercorrente tra i soggetti.
In tal senso si è pronunciata la Suprema Corte nella pronuncia in commento con riguardo alla fattispecie della falsa attestazione delle presenze sul lavoro, nota mediaticamente con l'espressione “furbetto del cartellino”, peraltro concordemente ad altri numerosi precedenti di legittimità (Cfr. Cass. 6 agosto 2020, n. 16784; Cass. 21 aprile 2022, n. 12745; Cass. 4 luglio 2016, n. 13580; Cass. 25 giugno 2015, n. 13162).
Il caso giunto al vaglio della Cassazione
La fattispecie al vaglio della Cassazione riguarda la vicenda di un lavoratore, licenziato dal Comune, presso cui lavorava con qualifica di operaio e mansioni di capo squadra.
Il dipendente era destinatario della misura degli arresti domiciliari, disposta dalla Procura di Terni, poiché indiziato del reato di cui all'articolo 640, n. 2 e 1, c.p..; contestualmente all'applicazione della misura veniva disposta dal Comune la sospensione obbligatoria dal servizio e dalla retribuzione secondo quanto disposto dal Contratto collettivo di settore. Sulla base di ben 29 episodi, accertati dalla Polizia giudiziaria, l'Ente pubblico provvedeva alla redazione della contestazione disciplinare con richiamo all'informativa di reati nonché ipotizzando la violazione di alcune norme del Codice di condotta. Successivamente il Tribunale penale competetene revocava la misura cautelare e conseguentemente il Comune revocava la sanzione conservativa della sospensione. Il lavoratore presentava quindi legittime note difensive, a cui seguiva il licenziamento da parte dell'Ente Pubblico.
Tanto il Giudice di primo grado quando la Corte d'Appello decidevano di non accogliere le pretese del lavoratore, il quale ha provveduto quindi alla proposizione del ricorso per Cassazione.
Il pregresso contesto giurisprudenziale
Certamente il fenomeno della falsa attestazione delle presenze sul posto di lavoro trova le proprie origini nell'ambito del pubblico impiego, ciò non togliendo che il medesimo problema organizzativo si presenti anche nell'ambito dell'impresa privata laddove si verifichi un impiego fraudolento del badge presenza, violando evidentemente i doveri di diligenza e fedeltà.
A proposito della violazione del vincolo fiduciario da parte dei cosiddetti furbetti del cartellino, la giurisprudenza di legittimità è da tempo ferma nel ritenere che “La timbratura del cartellino marcatempo per conto di una collega non presente sul luogo di lavoro, evidenziando l'intento di trarre in inganno il datore di lavoro, lede irrimediabilmente il vincolo fiduciario caratterizzante il rapporto, giustificando il recesso per giusta causa” (Cfr. Cass. sez. lav., 7 dicembre 2010, n.24796). Giungendo alle medesime conclusioni anche più recentemente, riconoscendo quindi la sussistenza della giusta causa di recesso, nel caso in cui il “dipendente abbia fatto risultare falsamente, mediante timbratura del cartellino marcatempo da parte di altro collega, la propria presenza in servizio. In tale caso la giurisprudenza di legittimità ritiene che trattasi di comportamento gravemente irregolare ed anomalo, idoneo a ledere in misura significativa il vincolo fiduciario con il datore di lavoro” (Cfr. Cass. sez. lav., 28 maggio 2018, n.13269).
Occorre tuttavia annotarsi che con specifico riguardo alla proporzionalità del recesso intimato in ragione della falsa attestazione della presenza sul lavoro, la Cassazione non altrettanto univoca nel definire i limiti di esercizio del recesso datoriale. Infatti si registravano sino alla presente pronuncia alcuni arresti che con specifico riguardo alla fattispecie che ci impegna avevano giudicato che – in ogni caso – “La sussistenza in concreto di una giusta causa di licenziamento va accertata in relazione sia alla gravità dei fatti addebitati al lavoratore sia alla proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, con valutazione dell'inadempimento in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" dettata dall'art. 1455 c.c.” (Cfr. Cass. sez. lav., 25 maggio 2016 n.10842).
D'altro canto, sul punto si registra un contrasto – almeno potenziale – con altra giurisprudenza di legittimità più riassalente a mente della quale sarebbe irrilevante, ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento, la modesta entità di un danno patrimoniale a carico del datore di lavoro, ove il comportamento illecito del prestatore abbia determinato il venir meno del requisito della fiducia (Cfr. Cass. 14 maggio 1997, n. 4212).
Infine, occorre annotare che la fattispecie di cui trattasi non è priva di risvolti penalistici, infatti è stata individuata una responsabilità di natura penale a carico del dipendente che attesti falsamente la sua presenza in ufficio, peraltro anche in assenza di un danno economico quantificabile, in quanto il comportamento illecito posto in essere determina un pregiudizio nell'organizzazione dell'ente. Più precisamente: “La falsa attestazione del pubblico dipendente relativa alla sua presenza in ufficio, riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, integra il reato di truffa aggravata anche a prescindere dal danno economico corrispondente alla retribuzione erogata per una prestazione lavorativa inferiore a quella dovuta, incidendo sull'organizzazione dell'ente, mediante la arbitraria modifica degli orari prestabiliti di presenza in ufficio, e compromettendo gravemente il rapporto fiduciario che deve legare l'ente al suo dipendente. (In motivazione, la Corte ha precisato che di tali aspetti del danno il giudice deve tener conto anche al fine di valutare la sussistenza dell'attenuante di cui all'art. 62, comma 1, n. 4 c.p.)” (Cass. pen. 30 novembre 2018, n. 3262. Così anche App. Napoli sez. III, 26 febbraio 2018, n.607 e App. Taranto, 27 novembre 2020, n.626).
La posizione espressa dalla pronuncia in esame
Come anticipato, la sentenza in commento ha ritenuto giustificato il licenziamento in tronco del dipendente che attesti falsamente la propria presenza sul posto di lavoro, indipendentemente dalla gravità della condotta e del danno arrecato, in quanto a venire posta in dubbio è la correttezza delle prestazioni future del dipendente.
Trattasi dunque di un giudizio prognostico in continuità con gli orientamenti giurisprudenziali precedenti. Infatti, ai fini della valutazione di proporzionalità è sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali.
In particolare, in caso di falsa attestazione della presenza in servizio, la Corte ha ritenuto che la condotta del lavoratore denoterebbe una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza.
Infatti, oltre ad integrare fattispecie penalmente rilevanti, implica la violazione dei fondamentali doveri scaturenti dal vincolo della subordinazione e legittima il recesso per giusta causa. La modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti; nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e ad incidere sull'elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro.
Fonte: Cass. 21 settembre 2022 n. 27683
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