lunedì 17/10/2022 • 06:00
Per i giudici comunitari la regola interna all'azienda che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione se applicata in maniera generale e indiscriminata.
redazione Memento
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Una regola interna di un'impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione se applicata in maniera generale e indiscriminata.
È questa, in estrema sintesi, la conclusione cui arriva la Corte di Giustizia UE nella causa 344/20 con la sentenza dello scorso 13 ottobre.
I fatti di causa
La vicenda giudiziaria trae origine dalla mancata presa in considerazione della candidatura spontanea di una donna di confessione musulmana che indossa il velo islamico, a svolgere un tirocinio, in seguito al rifiuto di quest'ultima di rimuovere il velo per conformarsi al divieto imposto dalla società ai suoi dipendenti di manifestare, segnatamente mediante l'abbigliamento, le loro convinzioni religiose, filosofiche o politiche. In base a tale regola, stabilita nel regolamento aziendale i dipendenti «si impegnano a rispettare la politica di rigorosa neutralità vigente all'interno dell'azienda» e «non dovranno pertanto manifestare in alcun modo, né verbalmente, né con un particolare abbigliamento o in altro modo, le proprie convinzioni religiose, filosofiche o politiche, di qualsiasi tipo».
La disciplina comunitaria di riferimento
La causa ruota attorno all'applicazione della Direttiva UE 2000/78 e, segnatamente, dell'articolo 1, ai sensi del quale la Direttiva «mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento», e del successivo articolo 2 che, nel definire il principio della parità di trattamento, stabilisce che “sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all'articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga”.
La decisione della Corte di Giustizia
Chiarito che l'espressione contenuta al citato articolo 1 «religione o (...) convinzioni personali» costituisce un solo e unico motivo di discriminazione che comprende tanto le convinzioni religiose quanto le convinzioni filosofiche o spirituali, i giudici comunitari affermano che, in base al successivo articolo 2, “una disposizione di un regolamento di lavoro di un'impresa che vieta ai dipendenti di manifestare verbalmente, con l'abbigliamento o in qualsiasi altro modo, le loro convinzioni religiose o filosofiche, di qualsiasi tipo, non costituisce, nei confronti dei dipendenti che intendono esercitare la loro libertà di religione e di coscienza indossando visibilmente un segno o un indumento con connotazione religiosa, una discriminazione diretta «basata sulla religione o sulle convinzioni personali», ai sensi della Direttiva 2000/78, a condizione che tale disposizione sia applicata in maniera generale e indiscriminata”.
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Giulia Busin
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