lunedì 17/10/2022 • 06:00
Con la sentenza resa nella causa C-397/21, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha esaminato le conseguenze, in punto di rimborso IVA, dell’errata emissione della fattura con IVA a fronte di operazioni non soggette ad imposta nello Stato membro destinatario della richiesta di restituzione.
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La controversia ha avuto origine dall’istanza di rimborso presentata nel luglio 2019 da una società ungherese per ottenere il recupero dell’IVA addebitatale in relazione all’esecuzione di lavori di costruzione del progetto intitolato “Realizzazione del padiglione dell’Ungheria all’Esposizione Universale di Milano 2015” per il quale le Autorità fiscali ungheresi, a seguito di ispezione fiscale, avevano ritenuto invece applicabile il regime di esclusione dall’imposta in carenza del requisito della territorialità.
La ricorrente, a sostegno della propria domanda, evidenziava che l’importo addebitato in fattura era stato interamente corrisposto e che non fosse recuperabile in sede civile, poiché nel frattempo la società emittente la fattura era stata oggetto di una procedura di liquidazione in cui lo stesso liquidatore aveva valutato come remota la possibilità di recupero del credito IVA in parola.
La domanda, tuttavia, veniva rigettata dalle Autorità competenti che, sebbene non contestassero il pagamento dell’imposta, rilevavano l’impossibilità di applicare la normativa IVA locale, in quanto il luogo in cui erano state effettuate le operazioni era da individuarsi in quello in cui l’immobile era situato, vale a dire in Milano.
La società impugnava la decisione dinanzi al giudice amministrativo al fine di ottenere il rimborso dell’IVA e il giudice del rinvio, ritenendo che la vicenda dovesse essere risolta alla luce del diritto e della giurisprudenza unionali e, in particolare, dei principi generali di neutralità dell’IVA, di certezza del diritto, di efficacia e di non discriminazione, poneva taluni quesiti alla Corte di Giustizia.
Con la prima domanda, si è chiesto se, alla luce dei principi unionali, un’autorità tributaria nazionale possa non restituire l’IVA erroneamente addebitata in fattura, né all’emittente né al destinatario della fattura, qualora il versamento dell’imposta da parte del primo sia dimostrabile e il destinatario della fattura abbia pagato la stessa.
In caso di risposta positiva, poi, i Giudici unionali sono stati chiamati a vagliare la conformità al diritto UE di una normativa nazionale che non consente al destinatario della fattura di rivolgersi direttamente all’autorità tributaria del proprio paese al fine di chiedere il rimborso dell’IVA o che lo consente solo nel caso in cui sia impossibile o estremamente difficile chiedere tale rimborso dell’IVA mediante altri strumenti di diritto civile, in particolare in una vicenda, quale quella in esame, in cui sia intervenuta nel frattempo la messa in liquidazione dell’emittente della fattura.
Infine, sono state chieste indicazioni sulla debenza degli interessi sull’IVA oggetto del rimborso, anche con riferimento al periodo temporale cui aver riguardo.
Esaminando congiuntamente le prime due questioni pregiudiziali, i Giudici unionali, alla luce del principio di neutralità dell’IVA, hanno affermato che, in assenza di una disposizione che consenta la regolarizzazione della fattura da parte dell’emittente, è compito degli Stati membri determinare le condizioni in cui tale IVA può essere regolarizzata, prevedendo nel proprio ordinamento interno regole che consentano detta rettifica, purché sia dimostrata la buona fede dell’emittente la fattura.
Inoltre, sulla scia dell’insegnamento unionale, gli stessi hanno ricordato che è conforme ai principi di neutralità dell’IVA e di effettività un ordinamento nazionale che consenta al prestatore che ha versato erroneamente l’IVA alle autorità tributarie di chiederne il rimborso e al destinatario della fattura di esercitare un’azione civilistica di ripetizione dell’indebito. Tuttavia, quando il rimborso dell’IVA risulta impossibile o eccessivamente difficile, segnatamente per insolvenza del prestatore, è necessario che gli Stati Membri prevedano gli strumenti necessari per consentire al destinatario di recuperare l’IVA indebitamente fatturata e pagata, in particolare inviando la sua domanda di rimborso direttamente all’amministrazione finanziaria (cfr., sentenze del 15 marzo 2007, causa C-35/05, Reemtsma Cigarettenfabriken e dell’11 aprile 2019, causa C-691/17, PORR Építési Kft).
Inoltre, sebbene gli Stati membri possano corredare gli obblighi formali del soggetto passivo di sanzioni tali da incoraggiare quest’ultimo a rispettare detti obblighi al fine di assicurare il corretto funzionamento del sistema dell’IVA, potendo irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria per la presentazione di una domanda di rimborso per IVA indebitamente versata a causa della sua negligenza, il potere sanzionatorio non può spingersi a tal punto da negare, in assenza di frode o abuso, i principi stabiliti dall’Unione tramite l’adozione di misure sproporzionate.
Ne consegue che, alla luce dei principi di neutralità e di effettività che presiedono il sistema IVA, un soggetto passivo a cui un altro soggetto passivo abbia fornito un servizio può chiedere direttamente all’amministrazione tributaria il rimborso dell’importo corrispondente all’IVA che gli è stata indebitamente fatturata da tale prestatore e che quest’ultimo ha versato all’erario, qualora il recupero di tale importo presso detto prestatore sia impossibile o eccessivamente difficile a causa della sua messa in liquidazione e anche se non possa contestarsi alcuna frode o abuso a questi due soggetti passivi, cosicché non sussiste un rischio di perdita di gettito fiscale per detto Stato membro.
La sentenza in commento conferma i precedenti giurisprudenziali unionali. In altre occasioni, infatti, con riferimento a casistiche derivanti dall’insolvenza del dante causa, la Corte di Giustizia aveva inteso riconoscere il diritto del contribuente ad agire per il rimborso direttamente nei confronti delle Autorità tributarie “senza che quest’ultima possa opporgli la mancanza di nesso causale diretto tra la riscossione dell’imposta indebitamente riscossa e il danno subito dall’acquirente” (cfr., ex multis, sentenza del 20 ottobre 2011, causa C-94/10, Danfoss e Sauer-Danfoss). È compito degli Stati Membri, nel rispetto dei principi di equivalenza ed effettività, stabilire i requisiti al ricorrere dei quali tali domande possono essere presentate, di modo che gli stessi “non siano meno favorevoli di quelli che riguardano reclami analoghi di natura interna e non siano congegnati in modo da rendere praticamente impossibile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario” (cfr., in particolare, sentenze del 17 giugno 2004, causa C-30/02, Recheio — Cash & Carry e del 6 ottobre 2005, causa C-291/03, MyTravel).
Tuttavia, sebbene occorra accogliere favorevolmente la pronuncia e i principi ivi ribaditi, occorre rilevare che, nella pratica, vi sono non pochi ostacoli nel definire il perimetro delle nozioni in commento. In altre parole, la mancanza di opportune indicazioni sulle nozioni di eccessiva difficoltà o l’impossibilità ad ottenere il ristoro del credito e la genericità della nozione di “insolvenza” (coniugata peraltro diversamente dagli Stati Membri) porrebbero spesso e inevitabilmente il contribuente dinanzi alla necessità di agire giudizialmente, con esiti tutt’altro che scontati. Sarebbe opportuno, forse, un ulteriore intervento sul punto che potesse chiarire, anche in modo casistico, le circostanze in cui l’insolvenza del dante causa possa tradursi in eccessiva difficoltà o impossibilità ad ottenere il rimborso del credito, con evidenti vantaggi in punto di tempistiche del rimborso e defaticamento del contenzioso.
Fonte: CGUE causa C-397/21
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