sabato 08/10/2022 • 06:00
Tra gli strumenti adottati dai datori di lavoro per contenere i costi dell'emergenza energetica c'è anche la riorganizzazione dei processi produttivi attraverso una rimodulazione dell'orario di lavoro. In tal caso, dovranno essere valutati i limiti al potere datoriale posti dalla legge e della contrattazione collettiva.
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Il contenimento dei costi legati all'emergenza energetica rappresenta per le imprese in questo momento un'assoluta priorità.
Tra le opzioni adottate o in corso di valutazione, una riorganizzazione dei processi produttivi modificando o riducendo i ritmi produttivi in attesa di tempi migliori sia sul fronte dei costi dell'energia e delle materie prime, sia su quello della contrazione dei consumi dovuti all'incremento dell'inflazione.
Evidentemente, le diverse scelte datoriali non possono che determinare ricadute sui lavoratori con conseguente necessità di valutare quali siano gli spazi offerti dal legislatore in relazione al potere del datore di lavoro di organizzare l'attività lavorativa e quali invece i limiti.
La modifica dell'orario di lavoro
In primo luogo, una valutazione da fare è quella della possibile rimodulazione dell'orario di lavoro modificando la relativa collocazione temporale in cui deve essere prestata l'attività lavorativa nell'arco della giornata oppure prevedere una diversa quantità della stessa.
Sotto il primo profilo, la scelta di adottare un diverso orario di lavoro nell'arco della giornata costituisce di regola una prerogativa del datore di lavoro.
Nel caso di contratto di lavoro a tempo pieno, infatti, i limiti datoriali riguardano il profilo quantitativo dell'orario di lavoro, che inerisce all'oggetto del contratto ma non quello della sua distribuzione temporale.
In particolare, l'imprenditore non può unilateralmente modificare la quantità dell'orario di lavoro mentre gli è invece riconosciuto il potere distributivo, salvo i limiti legali e contrattuali (Cass. 3 novembre 2021 n. 31349).
Diverso è il caso naturalmente del contratto di lavoro a tempo parziale, nel quale invece la collocazione temporale della prestazione di lavoro costituisce come è noto un elemento contrattuale rispetto al quale l'unilaterale possibilità di variazione è consentita solo nella ipotesi in cui le parti abbiano pattuito per iscritto clausole elastiche ed in questo caso nei limiti e con le modalità previste dall'art. 6 D.Lgs. 81/2015.
Altra possibilità è quella invece che consente di stabilire un orario di lavoro settimanale inferiore a quello normale in alcuni periodi per poi fissarlo in misura superiore in altre settimane dell'anno.
A tal fine, va ricordato che l'orario di lavoro, ai sensi dell'art. 3, c. 1, D.Lgs. 66/2003, è fissato in 40 ore settimanali o quello inferiore stabilito dai contratti collettivi.
Il successivo comma 2 prevede che i medesimi contratti collettivi – ed è questo il profilo che può essere utile valorizzare - possono stabilire che l'orario di lavoro venga determinato tenendo conto della durata media delle prestazioni lavorative non superiore ad un anno.
Si tratta di quello che viene definito orario multiperiodale, e che consente al datore di lavoro di poter ridurre l'orario di lavoro settimanale per poi aumentarlo in altri periodi dell'anno di tal ché la media risulti quella di 40 ore o il minor periodo fissato dai contratti collettivi quale orario normale di lavoro.
Il ruolo dei contratti collettivi, anche aziendali
A tal fine, il D.Lgs. 66/2003 fa riferimento ai contratti collettivi , definiti quelli stipulati da organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente più rappresentativi (articolo 1, comma 2, lett. m).
Da notare che il decreto non individua un determinato livello di stipulazione per cui, fermo restando il grado di rappresentatività richiesto dal legislatore, il contratto collettivo che può disciplinare la materia non è solo quello nazionale ma anche quello territoriale o aziendale (Circ. Min. Lav. 3 marzo 2005 n. 8).
Da un punto di vista operativo, dunque, la verifica da fare è preliminarmente quella di analizzare quanto prevede il contratto collettivo applicato dall'azienda in materia di orario di lavoro e nel caso in cui il rinvio legale previsto dall'articolo 3 citato non fosse stato attuato o vi fosse l'esigenza di disciplinarlo in maniera diversa, il datore di lavoro può avviare una relazione sindacale finalizzata alla stipula di un accordo che vada a regolamentare la fattispecie.
A tal fine, è utile ricordare che l'accordo aziendale potrà disciplinare la materia anche diversamente rispetto a quanto fosse già previsto dal contratto collettivo nazionale poiché non è prevista una gerarchia tra i diversi livelli della contrattazione collettiva (Cass. 15 novembre 2017 n. 27115).
In presenza di rappresentanze sindacali costituite in azienda ai sensi dell'art. 19 Legge 300/70, la relazione potrebbe essere avviata in maniera evidentemente più agevole vista la prossimità dell'interlocutore negoziale, ma più in generale si potrebbe valutare se intraprenderla,, ad esempio, qualora il datore di lavoro intendesse inviare l'informativa sindacale per l'accesso agli ammortizzatori sociali prevista dall'art. 14 D.Lgs. 148/2015, e ad essa segua la consultazione con le organizzazioni sindacali.
Ad ogni modo, la stipulazione del contratto collettivo aziendale può avvenire tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali aziendali (RSA o RSU), oppure con le associazioni di categoria territoriali firmatarie del contratto collettivo applicato dall'azienda.
In ogni caso, le organizzazioni sindacali dei lavoratori debbono essere comparativamente più rappresentative (v. supra).
La regolamentazione dell'orario di lavoro quale media delle prestazioni lavorative in un periodo più ampio non deve comunque superare, per ogni periodo di 7 giorni, le 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario (art. 4, c, 2, D.Lgs. 66/2003).
Anche in tale ipotesi è tuttavia previsto che la durata media dell'orario di lavoro possa essere calcolata per un periodo più lungo; più specificamente, la durata dell'orario di lavoro medio può essere calcolata con riferimento ad un periodo più ampio, di regola non superiore a quattro mesi.
Il legislatore, attraverso il rinvio legale sempre ai contratti collettivi, può infatti prevedere che tale periodo possa essere elevato a 6 mesi o a 12 mesi a fronte di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all'organizzazione del lavoro, specificate negli stessi contratti collettivi.
È utile altresì evidenziare che la disciplina in materia di lavoro non pone limiti alla quantità di prestazione giornaliera, fermo restando il limite settimanale dell'orario di lavoro indicato supra e naturalmente il rispetto delle pause e dei riposi giornalieri e settimanali previsti sempre dal D.Lgs. 66/2003.
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