mercoledì 28/09/2022 • 06:00
L’inserimento nella riforma del processo di una disposizione sull’onere della prova appare ispirato a immagine politica, fuori luogo per una questione logica come la prova; la modifica può essere utilizzata per scardinare formalismi pro fisco e irragionevoli dicotomie tra prova dei ricavi e dei costi.
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Valenza pratica di una modifica d'immagine
La maggior parte dei siti internet che si occupano di fisco parlano di grandi novità a proposito dell'art. 7 c. 5-bis Decreto sul processo tributario (D.Lgs. 546/92) come modificato dalla L. 130/2022 di fine agosto. Si tratta però in buona parte di sensazionalismo in quanto la modifica lascia impregiudicate questioni logiche, di principio, quasi senza tempo, in materia di unilateralità degli atti impositivi, loro motivazione e prova. Sono questioni riguardanti l'empirismo probabilistico del giudizio di fatto, come ho spiegato in varie sedi su cui è difficile intervenire per legge. Tanto più se si tratta di una legge varata in fretta e furia, con le camere sciolte e nell'imminenza delle elezioni politiche. Anzi, forse proprio l'imminenza delle elezioni ha spinto a una dichiarazione di principio forte sulla spettanza al fisco dell'onere della prova, in prima battuta ricognitiva di principi logici, ma che inserisce su di essi indicazioni valoriali su come gestire il dubbio nei singoli casi concreti.
La legge ha insomma ribadito con forza agli uffici tributari quanto tutti dicevano, ed essi sapevano già, fingendo talvolta di dimenticarsene. Il suddetto comma 5 bis secondo cui il giudice … annulla l'atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale va forse addirittura oltre la questione della prova, estendendosi alla motivazione, cioè alle argomentazioni giuridiche da indicare nell'atto impositivo. Il giudice, infatti, davanti a un atto di accertamento incardinato su determinati parametri di valutazione, come la resa di determinate materie prime o la produttività degli impianti, tende oggi a prenderne in considerazione altri, non indicati nella motivazione; l'innovazione normativa potrebbe contrastare queste prassi, che vedono come materia del contendere la stima complessiva dei ricavi, in relazione ai quali i parametri di stima non sarebbero tassativi. La modifica è riferita quindi non solo all'onere della prova, come sopra rilevato, ma anche all'obbligo della motivazione e alla necessità che il giudice non svolga un'oggettiva supplenza rispetto alle negligenze dimostrative dell'ufficio.
La modifica in commento, come tutte le disposizioni manifesto, è adattabile a varie situazioni, in cui i giudici possono farle dire cose che forse, in loro assenza, non saprebbero come argomentare. Sia i consulenti dei contribuenti, sia i funzionari degli uffici legali degli enti impositori, sia i giudici cercheranno di far parlare la novità normativa adattandola al caso concreto. Sia i difensori dei contribuenti, sia gli uffici, rischiano però di soccombere facendo riferimento astratto a disposizioni legislative come quella qui in esame, o altre analoghe; la discussione parte infatti dal suddetto livello logico pre-legislativo, dell'empirismo probabilistico del giudizio di fatto, riferito alla stima dei presupposti economici d'imposta. L'indicazione operativa, in una rivista professionale come questa, è quindi di partire sempre dalla valorizzazione del quadro probatorio nella loro ottica, valorizzando in un secondo momento regole come quella in esame.
Dicotomia probatoria “ricavi-costi”
L'innovazione legislativa potrebbe anche servire contro la dicotomia sull'onere della prova a seconda che si tratti di ricavi o costi; essa si è stratificata trasponendo meccanicamente, nella pratica della giurisprudenza, gli schemi civilistici, secondo cui l'ufficio tributario deve assolvere solo l'onere della prova dei maggiori ricavi.
La prova dei costi, delle esenzioni, e delle richieste di rimborso sarebbe invece a carico del contribuente. Questo destabilizzante dualismo consente agli uffici, com'è giusto, la prova dei maggiori elementi positivi anche con presunzioni molto deboli in punto di risultato, basate su vaghe valutazioni di economicità, tuttavia più convincenti rispetto ai risultati dichiarati dal contribuente, considerando le caratteristiche quali-quantitative dell'attività economica da lui svolta. Al contribuente, coinvolto nei fatti da provare, vene chiesto un maggior rigore probatorio, in nome di un altro principio logico che si intreccia con quella dell'onere della prova. Si tratta della vicinanza alla prova, fuori luogo rispetto alla dicotomia suddetta tra costi e ricavi; l'amministrazione finanziaria, cui è richiesta la prova dei maggiori ricavi accertati è tutt'altro che vicina alle relative documentazioni e alle relative evidenze materiali (quelle che gli inglesi chiamano evidence per intendere gli elementi da cui parte il ragionamento probatorio, denominato proof).
Per quanto riguarda i costi, il riferimento alla vicinanza della prova serve a poco quando l'ufficio tributario, dopo aver visionato le fatture passive afferma in modo sibillino che la documentazione è inadeguata, e la giurisprudenza, in modo ineffabile, lo segue dicendo che l'onere della prova dei costi non è stato assolto dal contribuente; quest'ultimo, davanti a simili frasi stereotipe, si vedrà recuperare a tassazione i costi, senza avere ben chiara un'idea delle relative ragioni.
La novità normativa, come detto al paragrafo precedente, riferendosi anche alle ragioni giustificative del recupero “in diritto” e all'obbligo di motivazione, può rompere questo ineffabile circolo vizioso. Per farlo bisogna superare la diffidenza dei giudici verso la strutturale informalità della documentazione contabile, modellata ad assolvere oneri probatori verso le controparti, e la gestione interna dell'azienda; è quindi fuori luogo chiedere a tale documentazione il rigore di matrice civilistica, magari notarile, che spesso uffici e giudici pretendono.
La stessa normalità economico-gestionale, con cui si consente al fisco di presumere maggiori ricavi, va quindi simmetricamente riferita anche a costi, detrazioni, ecc., superando il suddetto dualismo sull'onere della prova. Non servono leggi per superare il transfert dei criteri civilistici col loro onere della prova asimmetrico, dannoso per i contribuenti. Anche questi ultimi devono poter usare argomenti presuntivi, di verosimiglianza economica, analoghi a quelli utilizzati dall'ufficio per i ricavi. Ciò deve essere consentito senza diffidenze, in base ai criteri empirico-probabilistici del giudizio di fatto, riferiti al contesto aziendale, cui va adattata l'idea di prova e controprova, di matrice privatistico-processuale. Quest'atteggiamento, tipico degli accademici-avvocati, danneggia prima di tutto i loro clienti, spingendo gli uffici a comportarsi da “parti”. Gli uffici valorizzano così, spesso in modo selettivo, forzato e insinuante, gli elementi probatori a carico e sorvolano sui costi.
La parità processualistica delle parti deve valorizzare la natura non giurisdizionale della funzione tributaria. In essa la prova non si forma infatti nel processo, dove non si cerca di dare una prova dei costi o dei ricavi al giudice, perché lui determini l'imposta. Nel processo si portano invece argomenti su un vizio dell'attività amministrativa, quanto a coerenza e ragionevolezza; l'onere della prova serve cioè a verificare il corretto esercizio della funzione amministrativa d'imposizione, da parte dell'ufficio.
Non aver adeguatamente dimostrato un ricavo è un vizio dell'atto impositivo, ed ugualmente aver disconosciuto un costo che appariva economicamente credibile, o non aver istruito adeguatamente una richiesta di rimborso. La mancanza di argomentazioni dell'azione amministrativa costituisce comunque un vizio del relativo atto, e questo spazza via il suddetto dualismo, con un annullamento definitivo in presenza di accertamenti privi di una minima fondatezza. Quando invece la pretesa tributaria risulta in parte fondata, occorrerebbe un rinvio all'ufficio per una rideterminazione della stima, cosa che probabilmente è legittima già oggi, al di là degli stereotipi sull'”impugnazione merito”.
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Marco Ligrani
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