venerdì 23/09/2022 • 09:42
Il Decreto Trasparenza disciplina il diritto all’informazione del lavoratore di poter cumulare più impieghi, fatte salve alcune precise condizioni. La previsione legislativa – almeno in parte – risolve alcuni precedenti dubbi sulla possibilità o meno, per il datore di lavoro, di imporre la c.d. “clausola di esclusiva” e per un lavoratore subordinato di svolgere altre attività lavorative.
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Ormai da diversi anni, con la “liberalizzazione” degli orari di lavoro derivanti dal D.Lgs. n. 66/2003 (che in sintesi pone stringenti limiti soltanto sull'intervallo temporale di 11 ore tra una prestazione e l'altra ed alcuni vincoli sul riposo settimanale), con gli orari multi periodali stabiliti da diversi contratti collettivi sia nazionali che aziendali, con lo svilupparsi del lavoro agile dell'ultimo periodo, c'era da chiedersi se il tradizionale approccio rigido che di fatto impediva per un lavoratore a tempo pieno assunto da un'azienda di svolgere altre attività lavorative avesse ancora senso.
E il legislatore sembra dare una risposta forte, intervenendo per la prima volta direttamente sulla materia.
Il Decreto Trasparenza lo fa in attuazione della Direttiva (UE) 2019/1152 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, relativa all'esigenza di trovare condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell'Unione Europea: l'art.8 D.Lgs. n.104/2022 dispone che “il datore di lavoro non può vietare al lavoratore lo svolgimento di altra attività lavorativa in orario al di fuori della programmazione dell'attività lavorativa concordata, né per tale motivo riservargli un trattamento meno favorevole”.
La dichiarazione teorica è netta e chiara, ma va inquadrata in un contesto più amplio, come peraltro il Decreto immediatamente provvede a fare, introducendo alcuni precisi ed importanti limiti.
I limiti al cumulo d'impieghi
In primo luogo, l'art. 2105 c.c. che impone l'obbligo di fedeltà. Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore, né divulgare notizie attinenti all'organizzazione e ai metodi di produzione dell'impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio. Quest'obbligo, ovviamente, è “assoluto” e va letto insieme all'art. 2106 c.c. la sua inosservanza può dar luogo all'applicazione di sanzioni disciplinari secondo la gravità dell'infrazione.
Il legislatore individua ulteriori tre casi in cui il datore di lavoro può limitare o negare al lavoratore lo svolgimento di un altro e diverso rapporto di lavoro.
Il primo riguarda la condizione che ciò non arrechi un pregiudizio per la salute e la sicurezza, comprendendo in ciò il rispetto della normativa in materia di durata dei riposi, il secondo che comunque sia garantita l'integrità del servizio pubblico, la terza che la diversa ed ulteriore attività non sia in conflitto di interessi con la principale, indipendentemente dal dovere di fedeltà previsto dall'art. 2105 c.c..
L'ambito di applicazione di quanto sopra stabilito è molto esteso, applicandosi espressamente a tutte le tipologie di rapporto di lavoro subordinato, compresa la pubblica amministrazione, ma anche ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa ed al contratto di prestazione occasionale. L'unica espressa esclusione è riferita ai lavoratori marittimi e a quelli del settore della pesca.
Dall'analisi di quanto disposto dal Decreto Trasparenza emergono alcune considerazioni:
Un discorso a parte merita la parte del Decreto che si preoccupa che attività di lavoro molteplici svolte dal singolo lavoratore possano costituire una violazione delle norme in materia di orario di lavoro e riposi e conseguentemente arrecare un danno alla sua salute e sicurezza.
L'obbligo di comunicazione del lavoratore
Il Decreto non prevede espressamente l'obbligo del lavoratore di comunicare al datore di lavoro lo svolgimento di altra attività lavorativa ma, se fosse così, come e chi potrebbe verificare e/o impedire che ciò non accada? E conseguentemente, il datore di lavoro (quale?) può allora esigere dal suo lavoratore di essere informato in caso di svolgimento di altra attività lavorativa per valutare il rispetto delle leggi sulla salute e sicurezza?
La questione non è di poco conto e, in via interpretativa, per dare un senso alle limitazioni individuate dal legislatore, si dovrebbe ritenere che, anche in virtù dei principi generali di correttezza e buona fede, il lavoratore debba informare il datore di lavoro di altre sue attività lavorative, in modo da rendere in qualche modo esigibile e concreto quanto sancito dalla norma.
Ed inoltre, sempre con riferimento al quadro normativo generale in materia, va anche considerato che il lavoratore è tenuto, ai sensi dell'art. 20 D.Lgs. n.81/2008, a cooperare per evitare pregiudizi alla propria salute e sicurezza.
Infine, un'ultima considerazione metagiuridica: se parliamo di trasparenza, sarebbe logico che il principio si applichi anche al lavoratore. Pertanto, nello spirito generale della norma che tende alla sua tutela, è comunque auspicabile (e probabilmente un dovere per quanto sopra descritto) che lo stesso comunichi al proprio datore di lavoro di svolgere altre attività lavorative, fuori dal suo normale orario di lavoro.
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