mercoledì 21/09/2022 • 12:05
La Cassazione, con sentenza 16 settembre 2022 n. 27334, analizza il tema della tutela riservata al lavoratore licenziato durante il periodo di comporto e conferma, richiamando le Sezioni Unite, il diritto per il dipendente a essere reintegrato sul posto di lavoro.
redazione Memento
Il licenziamento intimato durante il periodo di comporto deve essere considerato sempre nullo (a prescindere dal numero dei dipendenti assunti in azienda) e il dipendente che lo subisce ha diritto sia alla reintegra sul posto di lavoro sia al risarcimento per il danno subìto: lo ribadisce la Cassazione, analizzando il ricorso di una lavoratrice che era stata licenziata mentre si trovava in malattia a causa delle conseguenze di un infortunio sul lavoro per cui il datore di lavoro era stato ritenuto responsabile. Il caso di specie Una lavoratrice si infortuna e, durante il periodo del comporto, è licenziata dal proprio datore di lavoro che considerava scaduto il periodo protetto del comporto. Tuttavia, il datore di lavoro viene considerato responsabile dell'infortunio e perciò i periodi di malattia dovuti all'assenza per infortunio non potevano essere computabili ai fini del calcolo del periodo di comporto. Il Tribunale accoglie il ricorso della lavoratrice (che chiedeva di essere reintegrata e risarcita), ma la Corte di appello, considerato il requisito dimensionale del datore di lavoro, decideva per il solo risarcimento del danno. Di conseguenza, la dipendente ricorreva in Cassazione per vedersi applicata la tutela prevista in caso di licenziamento nullo, ovvero reintegra e risarcimento del danno. L'analisi della Cassazione La Cassazione precisa innanzitutto che il licenziamento intimato prima dello scadere del periodo di comporto, solo in ragione del perdurante stato di malattia o infortunio del lavoratore, è nullo. Il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di recesso, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa e giustificato motivo. A sostegno di questa tesi, la suprema corte richiama una pronuncia di Sezioni Unite (Cass. SU 22 maggio 2018 n. 12568), che hanno sottolineato il carattere di norma imperativa dell'art. 2110, c. 2, c.c., in quanto finalizzata all'esigenza di tutela della salute, il cui valore è sicuramente prioritario all'interno dell'ordinamento. In modo netto la pronuncia delle Sezioni Unite ribadisce la nullità del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto ma anteriormente alla sua scadenza, escludendo in modo esplicito che questo licenziamento sia meramente ingiustificato, tale dovendosi - invece - considerare solo quello che venga intimato mediante enunciazione d'un giustificato motivo o d'una giusta causa che risulti, poi, smentita ed escludendo, pertanto, l'applicazione della sola tutela indennitaria prevista in caso di licenziamento privo di giusta causa (art. 8 L. 604/66). Accolto il ricorso della lavoratrice Il licenziamento nullo, come quello del caso in esame, è sanzionato in ugual modo a prescindere dalla dimensione occupazionale aziendale (art. 18, c. 1-3, L. 300/70) e il lavoratore ha diritto sia alla reintegra che al risarcimento del danno (art. 18, c. 7, L. 300/70). Come risarcimento del danno subito dal lavoratore il datore di lavoro deve corrispondere un'indennità commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, dal giorno del licenziamento all'effettiva reintegrazione. Dall'indennità risarcitoria viene dedotto quanto percepito dal lavoratore, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative (c.d. “aliunde perceptum”). In ogni caso la misura del risarcimento non può essere inferiore a 5 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. Il datore di lavoro è tenuto, inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. Fonte: Cass. 16 settembre 2022 n. 27334
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