giovedì 08/09/2022 • 11:51
La Cassazione, con sentenza n. 26407 del 7 settembre 2022, si esprime in una causa che ha visto contrapporsi una dipendente, licenziata in forma orale da una società che rifiutava le prestazioni lavorative della stessa.
redazione Memento
Una lavoratrice viene licenziata, senza forma scritta, a seguito di distacco illecito con accertamento della titolarità del rapporto di lavoro subordinato in capo al datore di lavoro originario. Quest’ultimo, tuttavia, si rifiuta di ricevere la prestazione lavorativa della dipendente e pone in essere un licenziamento senza, però, esplicitarlo in forma scritta. Di conseguenza, la lavoratrice propone ricorso nei confronti del datore di lavoro. La decisione della Corte di appello I giudici dell’Appello, affrontando in primis la questione del licenziamento privo della necessaria forma scritta, riprendono quanto già sottolineato dal Tribunale atteso che, a fronte di una formale offerta della prestazione lavorativa da parte della ricorrente, la società non ha consentito alla stessa di continuare a lavorare alle sue dipendenze e nemmeno ha risolto il rapporto di lavoro con una comunicazione scritta. Viene, in seguito, escluso che il comportamento della lavoratrice, in fatto, potesse essere considerato come equivalente a dimissioni o come risoluzione consensuale del rapporto di lavoro tra la stessa e la società, rilevando che anche la percezione del TFR e la nuova occupazione lavorativa non costituivano elementi integranti un mutuo consenso per una risoluzione tacita consensuale. Infine, i giudici ritengono non necessaria l’impugnazione del licenziamento orale, affermazione che viene contestata dalla società in Cassazione. Il parere della Cassazione La Cassazione ribadisce subito che il lavoratore che impugna il licenziamento, allegandone l'intimazione senza l'osservanza della forma scritta, ha l'onere di provare, quale fatto costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà datoriale, seppure manifestata con comportamenti concludenti, non essendo sufficiente la prova della mera cessazione dell'esecuzione della prestazione lavorativa. Proseguendo con l’analisi, la Corte territoriale non ha ritenuto la prova del recesso sulla base della mera cessazione dell’attività lavorativa, ma l’ha desunta dal comportamento concludente della società che, a fronte della richiesta della lavoratrice di continuare a lavorare alle sue dipendenze, non lo ha consentito, escludendo anche che dal comportamento della dipendente potesse desumersi la volontà di dimettersi. Per questi motivi, la suprema corte respinge il ricorso del datore di lavoro. Fonte: Cass. 7 settembre 2022 n. 26407
© Copyright - Tutti i diritti riservati - Giuffrè Francis Lefebvre S.p.A.
Rimani aggiornato sulle ultime notizie di fisco, lavoro, contabilità, impresa, finanziamenti, professioni e innovazione
Per continuare a vederlo e consultare altri contenuti esclusivi abbonati a QuotidianoPiù,
la soluzione digitale dove trovare ogni giorno notizie, video e podcast su fisco, lavoro, contabilità, impresa, finanziamenti e mondo digitale.
Abbonati o
contatta il tuo
agente di fiducia.
Se invece sei già abbonato, effettua il login.